Il “fine giustifica i mezzi” recita una citazione erroneamente attribuita a Niccolò Machiavelli e il “profitto diventa giustificato motivo di licenziamento” afferma la Corte di Cassazione, Cassazione Sezione Lavoro, nella sentenza n. 25201 depositata il 7 dicembre 2016 (Presidente V. Di Cerro – relatore F. Amendola).
Con la pronuncia in esame la Corte di Cassazione riconosce per la prima volta nel nostro ordinamento la rivoluzionaria fattispecie di licenziamento per profitto.
Gli Ermellini hanno accolto il ricorso proposto da una società, che aveva visto annullare nel processo di secondo grado il licenziamento di un suo dipendente, poiché la Corte territoriale lo aveva considerato illegittimo in quanto risultava “motivato soltanto dalla riduzione dei costi e, quindi, dal mero incremento del profitto”.
La sentenza n. 25201 che, sta già facendo molto discutere, fa leva sul principio di libertà imprenditoriale sancita dall’art. 41 della Costituzione e sulla L. n. 604 del 15 luglio 1966.
Con un passaggio destinato a creare giurisprudenza, la Corte di Cassazione afferma che:“Ai fini della legittimità del licenziamento individuale intimato per giustificato motivo oggettivo l’andamento economico negativo dell’azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare ed il giudice accertare, essendo sufficiente che le ragioni inerenti all’attività produttiva ed all’organizzazione del lavoro, tra le quali non è possibile escludere quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività dell’impresa, determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa; ove però il licenziamento sia stato motivato richiamando l’esigenza di fare fronte a situazioni economiche sfavorevoli ovvero a spese notevoli di carattere straordinario ed in giudizio si accerti che la ragione indicata non sussiste, il recesso può risultare ingiustificato per una valutazione in concreto sulla mancanza di veridicità e sulla pretestuosità della causale adottata dall’imprenditore”.
La Suprema Corte fa riferimento a precedenti pronunce che condividono l’orientamento secondo cui il licenziamento per giustificato motivo oggettivo deve essere intimato quando c’è la necessità di fronteggiare situazioni sfavorevoli. Gli Ermellini, però, citano anche un secondo orientamento, in base al quale le ragioni produttive, ai sensi dell’art. 3 della L. 604/66, alla base del licenziamento presuppongono una riorganizzazione o ristrutturazione aziendale, ma non sono strettamente collegate ad una finalità che sia diretta a limitare gli effetti di una crisi economico-finanziaria.
Osservano i Supremi Giudici che la Corte Costituzionale, in una pluridecennale giurisprudenza, ha avuto modo di affermare che nell’art. 4 Cost. non si rinviene un diritto all’assunzione o al mantenimento del posto di lavoro, che l’indirizzo di progressiva garanzia del diritto del lavoro previsto dall’art. 4 e dall’art. 35 Cost. ha portato nel tempo ad introdurre temperamenti al potere di recesso del datore di lavoro; che però, tali garanzie, sono affidate alla discrezionalità del legislatore, non solo quanto alla scelta dei tempi, ma anche dei modi di attuazione, in rapporto alla situazione economica generale.
In assenza di una specifica indicazione normativa, la tutela del lavoro garantita dalla Costituzione non consente di riempire di contenuto l’art. 3 della L. n. 604 del 1966 sino al punto di ritenere precettivamente imposto che, nel dilemma tra una migliore gestione aziendale ed il recesso da un singolo rapporto di lavoro, l’imprenditore possa optare per la seconda soluzione solo a condizione che debba far fronte a sfavorevoli e non contingenti situazioni di crisi.
L’art. 41, comma 3, Cost., riserva al legislatore il compito di determinare i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali
E quindi osserva la Cassazione che, fermo restando il vincolo invalicabile per cui l’iniziativa economica privata non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, essa è “libera”, nei limiti stabiliti dal legislatore al quale non può sostituirsi il giudice.
Da tutto ciò la Suprema Corte ricava quanto segue: 1) spetta all’imprenditore stabilire la dimensione occupazionale dell’azienda, evidentemente al fine di perseguire il profitto che è lo scopo lecito per il quale intraprende l’attività e 2) tale scelta è sicuramente libera nel momento genetico in cui nasce l’azienda e si instaurano i rapporti di lavoro in misura ritenuta funzionale allo scopo.
Inoltre, l’interpretazione accolta, secondo la Cassazione, non mostra neanche profili di contrasto neanche con l’ordinamento dell’Unione europea,
L’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea sancisce che: “Ogni lavoratore ha il diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali”.
Ebbene, non occorre che un diritto sia riconosciuto dalla Carta come “fondamentale”, ma occorre che l’Unione abbia la competenza a disciplinarlo e che la stessa competenza sia stata in concreto esercitata, atteso che la Corte di Giustizia ha evidenziato come essa, per quanto riguarda la carta, non possa valutare una normativa nazionale che non si collochi nell’ambito del diritto dell’Unione.
Nonostante la tutela dei lavoratori in caso di risoluzione del contratto di lavoro sia uno dei mezzi per raggiungere gli obiettivi fissati dall’art. 151 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione e il legislatore dell’Unione sia competente in tale settore in base alle condizioni di cui all’art. 153 dello stesso Trattato, vi è una direttiva che riguarda i licenziamenti collettivi ma non quelli individuali rispetto ai quali detta competenza non è stata esercitata.
Bisogna, inoltre, considerare che l’art. 30 su menzionato, si limita a proclamare il diritto del lavoratore ad una tutela in caso di licenziamento ingiustificato, lasciando al legislatore comunitario ed a quello nazionale il compito di dare concretezza al contenuto ed agli scopi del principio enunciato.
Infine, la Carta sociale europea, all’art. 24, si limita a stabilire l’impegno delle parti contraenti a riconoscere il diritto dei lavoratori a non essere licenziati senza un valido motivo e tra essi pone quello “basato sulle necessità di funzionamento dell’impresa”. Anche con riguardo alla Carta sociale la Corte di Giustizia si è dichiarata incompetente a pronunciarsi in materia di interpretazione di norme di diritto internazionale che vincolano gli Stati Membri, ma esulano dalla sfera del diritto dell’Unione, non sindacando un patto di prova rispetto al quale non era stato dimostrato un nesso con l’ordinamento comunitario.
Ciò che emerge, quindi, dalla sentenza in esame è che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo per essere legittimo d’ora in poi non dovrà più essere considerato la estrema ratio ma come una delle possibilità per l’imprenditore di manifestare la sua autonomia organizzativa e decisionale senza essere sottoposto al vaglio del giudice del lavoro, ma solo all’opportunità sociale.

Avv. Maria Teresa De Luca

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