Sufficiente, ai fini dell’integrazione del reato di minaccia, che la condotta dell’agente sia potenzialmente idonea ad incidere sulla libertà morale della vittima

“Le donne stanno bene tutte ammazzate”. Questa una delle frasi contestate a un uomo finito a giudizio per il reato di minaccia. L’imputato era accusato, inoltre, di aver affermato, nel corso di una cena con la madre della loro figlia minore, di essere a favore del femminicidio e che, se non si fosse sporcato le mani lui, le avrebbe fatte sporcare a qualcun altro ma non avrebbe permesso alla donna, persona offesa, di portare via la bambina e l’avrebbe lasciata sulla sedia a rotelle.

In primo grado il Giudice di Pace aveva pronunciato una sentenza di assoluzione “perché il reato non sussiste”, ma il Procuratore generale presso la Corte di appello aveva dedotto che il riferimento al difetto di dolo, di cui alla motivazione censurata, non trovava correlazione nella formula assolutoria adottata e nella rilevata assenza di intimidazione che, invece, atteneva all’elemento oggettivo del reato.

Per la Cassazione, che si è pronunciata sul caso con la sentenza n. 12729/2020, il ricorso va accolto in quanto fondato.

Il Giudice di pace – sottolineano dal Palazzaccio – era giunto alla pronunciata assoluzione sulla base della deposizione della parte lesa la quale, secondo la motivazione del provvedimento impugnato, aveva affermato che era stata presente, mentre si trovava a cena con l’imputato, guardando alla televisione una “notizia di femminicidio” e, in quel frangente, questi aveva pronunciato le frasi incriminate, dalle quali non si era sentita intimidita, né per lei stessa né per la sua bambina presente ai fatti. Il magistrato onorario, dunque, ritenendo il difetto di dolo e stante l’assenza di una concreta intimidazione recepita dalla parte lesa, aveva assolto l’imputato.

Per gli Ermellini, tuttavia, è corretta la critica mossa dall’impugnante, circa il rilevato difetto di dolo e la dissonanza tra tale rilievo e il tenore del dispositivo che assolveva l’imputato perché il fatto non sussiste. Ai fini della sussistenza del reato di cui all’art. 612 del codice penale, trattandosi di reato di pericolo, è sufficiente – come correttamente rilevato dal ricorrente – l’idoneità della minaccia da valutarsi con criterio medio, in relazione alle concrete circostanze del fatto, senza che sia necessario che il soggetto sia effettivamente intimidito dalla condotta dell’agente.

Sotto tale profilo va, infatti, condiviso l’orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo il quale, ai fini dell’integrazione del delitto contestato, non è necessario che il soggetto passivo si sia sentito effettivamente intimidito, essendo sufficiente che la condotta dell’agente sia potenzialmente idonea ad incidere sulla libertà morale della vittima.

Sicché l’eventuale atteggiamento minaccioso o provocatorio non influisce sulla sussistenza del reato, potendo eventualmente sostanziare una circostanza che ne diminuisca la gravità, come tale esterna alla fattispecie.

Del resto lo stesso capo di imputazione, oltre che la ricostruzione offerta dalla difesa nella memoria in atti depositata, collocava l’episodio in cui sono state pronunciate le frasi minacciose in uno specifico contesto, di contrasti significativi tra le parti. Dunque – conclude la Cassazione – “appare contraddittorio, come dedotto, aver escluso l’idoneità delle frasi medesime, di per sé evidente, in quanto intrinsecamente capaci di incidere sulla libertà morale di un soggetto medio e, comunque, espressione di una specifica volontà intimidatrice, diretta proprio verso la parte lesa (come quando si rende conto della circostanza che l’imputato aveva detto alla donna che avrebbe fatto la stessa fine e che sarebbe finita sulla sedia a rotelle)”.

La redazione giuridica

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