Sostituzione della protesi al ginocchio e infezione da stafilococco

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A seguito di intervento di sostituzione della protesi al ginocchio, la paziente contrae infezione da stafilococco che non veniva correttamente trattata e conduceva la paziente sulla sedia a rotelle. Dichiarati responsabili nel doppio grado di giudizio la Clinica nella misura dell’80% e i due Medici nella misura del 20%.

L’iter clinico

Nel 2006 la paziente si sottoponeva presso la casa di cura Nuova Clinica Annunziatela a intervento di sostituzione della protesi al ginocchio, eseguito dai chirurghi P. M. In seguito contraeva una infezione da stafilococco aureo che, non correttamente diagnosticata e trattata, conduceva l’attrice in una situazione patologica grave tanto da ridurla a soli 56 anni su una sedia a rotelle.

La paziente presentava un grave sovrappeso, era stata operata con inserimento chirurgico protesico al ginocchio sinistro perché presentava, già nel 2001, un gravissimo valgismo che le impediva di camminare. Il primo intervento aveva esito chirurgicamente positivo. Alla donna veniva consigliato un serio dimagrimento, per migliorare le sue condizioni di salute in generale e, in particolare, per alleggerire il peso gravante sul ginocchio. Nel 2006 si verificava la rottura della protesi installata nel ginocchio per il perdurante sovraccarico ponderale. Solo dopo 6 mesi dalla rottura della protesi, quando era già presente una importante infiammazione al ginocchio, la paziente si recava a visita. Veniva comunque rimossa dai due Chirurghi la prima protesi e riposizionato un nuovo impianto protesico.

La vicenda giudiziaria

I due Chirurghi evidenziano che la paziente trascurava anche i controlli post-operatori e che l’infezione si manifestava a ben sette mesi di distanza dalla operazione chirurgica. Negano quindi qualsiasi collegamento eziologico tra l’intervento di sostituzione protesica e la patologia infettiva della quale era risultata affetta a mesi di distanza. Rilevano, infine, che l’infezione, qualora ne fosse stato accertato il rapporto causale con l’intervento, sarebbe stata da attribuirsi alla responsabilità della Clinica piuttosto che alla loro condotta. Il Tribunale di Roma accoglieva la domanda, ponendo la responsabilità dell’infezione nosocomiale per l’80% in capo alla clinica e per il restante 20% in capo ai due Medici in parti uguali.

Dalla lettura della sentenza d’appello emerge che la motivazione di primo grado dava atto di alcune perplessità, quali il certificato del medico di base attestante a distanza di tempo l’esistenza dell’infezione, l’accertamento dell’esistenza dell’infezione intervenuto a sette mesi di distanza dall’operazione, e tuttavia riteneva sussistente la prova del nesso causale tra l’operato della clinica e dei medici e il danno riportato dalla signora, a assume che, a fronte di ciò, i due Medici non avrebbero dato la prova contraria né avrebbero idoneamente argomentato sull’inattendibilità del ragionamento seguito dal tribunale.

Ad ogni modo, la Corte d’appello in punto di prova del nesso causale ritiene che la paziente sia stata dimessa con una prescrizione antibiotica di lunga durata da assumere dopo le dimissioni, che dimostrerebbe una infezione già in atto. Aggiunge che dalla C.T.U. emergerebbe una valutazione negativa della scelta medico-chirurgica di sottoporre la donna ad un intervento chirurgico in due tempi, rimozione della protesi usurata e successiva sostituzione, rilevando che la duplicazione dell’intervento moltiplica anche i rischi di contrarre infezioni nosocomiali, e conferma un danno biologico al 40%.

Il ricorso della Cassazione

La Corte d’Appello di Roma confermava il primo grado e i due sanitari ricorrono in Cassazione.

I due Chirurghi si dolgono dell’accoglimento della domanda in mancanza di alcuna prova del nesso causale tra quella infezione, verificatasi a distanza di molti mesi e l’operazione correttamente eseguita presso la clinica. Espressamente invocano la necessità di compiere una nuova attività istruttoria per arrivare ad una corretta valutazione del merito della causa, e lamentano che non sia stata ritenuta ammissibile in appello la produzione documentale relativa alle risultanze di una attività investigativa che avevano fatto svolgere, dalla quale risulterebbe che in realtà la paziente non aveva alcuna necessità di avvalersi della sedia a rotelle ed era perfettamente in grado di deambulare autonomamente.

La Cassazione osserva che il ricorso dei due medici non contiene una illustrazione sufficiente dei fatti di causa che consenta di ricostruire sia pure nelle sue linee essenziali la vicenda processuale e umana sottoposta all’attenzione della Corte. Non è indicata la percentuale di invalidità permanente che la paziente ha riportato, non è indicato l’ammontare del risarcimento liquidato, non è indicata, neppure in estrema sintesi la motivazione della Corte d’appello. Per tali ragioni non è possibile ricostruirne il percorso logico.

Il ricorso per cassazione deve essere redatto in conformità ai principi di chiarezza e sinteticità espositiva

È granitico il principio secondo cui il ricorso per cassazione deve essere redatto in conformità ai principi di chiarezza e sinteticità espositiva. Il ricorrente deve offrire al Giudice di legittimità una concisa rappresentazione dell’intera vicenda giudiziaria e delle questioni giuridiche prospettate e non risolte o risolte in maniera non condivisa, per poi esporre le ragioni delle critiche nell’ambito della tipologia dei vizi elencata dall‘art. 360 c.p.c., a pena di inammissibilità allorché l’inosservanza di tali doveri si risolva in una esposizione oscura o lacunosa dei fatti di causa tale da pregiudicare l’intelligibilità delle censure mosse alla sentenza gravata, cosi violando i requisiti di contenuto-forma stabiliti dai nn. 3 e 4 dell’art. 366 c.p.c. (Cass. S.U. n. 35722 del 2021).

Oltre ai principi sopra indicati dalle Sezioni Unite, recentemente è stato chiarito (Cass. n. 8117/2022) che il principio di specificità del ricorso per cassazione, in conformità alle indicazioni della sentenza CEDU del 28 ottobre 2021 (causa Succi ed altri c/Italia), include la redazione dell’atto secondo criteri di sinteticità e chiarezza, realizzati dal richiamo essenziale degli atti e dei documenti per la parte d’interesse, in modo da contemperare il fine legittimo di semplificare l’attività della Cassazione e garantire al tempo stesso la certezza del diritto e la corretta amministrazione della giustizia, salvaguardando la funzione nomofilattica della Corte ed il diritto di accesso della parte ad un organo giudiziario in misura tale da non inciderne la stessa sostanza).

La comprensibilità della vicenda giudiziaria

Quanto sopra perché deve essere garantita la comprensibilità della vicenda giudiziaria e poi delle censure a tutte le parti del processo, onde evitare che l’attività interpretativa non debordi dalla sua naturale terzietà per assurgere ad un improprio ruolo di interpretazione sostitutiva ed integrativa delle doglianze e delle pretese delle parti, non sono state minimamente soddisfatte nel caso di specie.

Oltre al fatto che il ricorso per Cassazione dei due Medici presenta le suddette (inammissibili carenze), anche le singole censure sono a loro volta inammissibili, in quanto non denunciano alcuna violazione di legge, ma sono finalizzate a segnalare una carenza istruttoria e ad auspicare e sollecitare una più approfondita valutazione del merito. Sotto il profilo del denunciato vizio di motivazione, fanno riferimento a una nozione di vizio di motivazione più ampia dell’attuale e non più vigente.

La Suprema Corte dichiara inammissibile il ricorso (Cassazione Civile, sez. III, 31/01/2024, n.2857).

Avv. Emanuela Foligno

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