È legittimo il licenziamento intimato al dipendente condannato per stalking ai danni di una collega: la gravità del comportamento extralavorativo è indubbiamente lesivo del vincolo fiduciario tra le parti

La condotta di stalking

La Corte d’Appello di Venezia aveva confermato la legittimità del licenziamento intimato dalla società datrice di lavoro ad un proprio dipendente per giusta causa, consistita essenzialmente nella sua reiterata condotta di minaccia e molestia (stalking), protratta per alcuni anni a seguito della non accettata interruzione della relazione sentimentale con una collega.

Con insistente ed assillante invio di sms e mms alla sua utenza telefonica, anche di contenuto allusivamente minaccioso e di esibizione al marito di foto e filmini della stessa di contenuto erotico, nonché con appostamenti e pedinamenti nei confronti della donna, che diffamava mediante diffusione, nei bagni di luoghi pubblici e nelle stazioni, del suo numero di telefono a contattarla per prestazioni sessuali, l’uomo aveva provocato nella persona offesa un evidente stato di preoccupazione per l’incolumità propria e del marito e un malessere psico-fisico tale da indurla a modificare le proprie abitudini di vita e da interferire sull’organizzazione dell’attività lavorativa, con riflessi sull’intollerabilità della prosecuzione del rapporto di lavoro.

La pronuncia della corte d’appello

A motivo della decisione, la Corte territoriale aveva ritenuto provata la condotta contestata, sulla base delle risultanze del processo penale di primo grado (all’esito del quale era stato condannato alla pena di un anno e quattro mesi di reclusioni per il reato di stalking), nonché dalle istruttorie direttamente acquisite nel processo civile, anche con riferimento ai comportamenti tenuti successivamente.

Per i giudici della Corte territoriale non vi erano dubbi circa la proporzione tra gli addebiti contestati e la sanzione espulsiva comminata dalla società datrice di lavoro, vista la gravità del comportamento extralavorativo indubbiamente lesivo del vincolo fiduciario tra le parti.

Per la cassazione della sentenza il dipendente ha proposto ricorso lamentando l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, ovvero la richiesta vicendevole di entrambe le parti di trasferimento ad altro impianto, così da rendere assai rari i loro incontri sul lavoro all’epoca del licenziamento.

Ma il ricorso è stato rigettato, perché inammissibile (Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza n. 1890/2020).

Ricorreva, nel caso di specie, innanzitutto una ipotesi di “doppia conforme” delle due sentenze di merito; inoltre, il vizio denunciato dal ricorrente era privo del carattere di decisività escluso da una pluralità di fatti, nessuno autonomamente risolutivo. Ed inoltre, come più volte ribadito dai giudici della Cassazione, “spetta soltanto al giudice di merito individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, nonché di scegliere, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottese, dando così libera prevalenza all’uno o all’altro dei messi di prova acquisiti”.

Parimenti è stata ritenuta infondata la doglianza relativa alla falsa applicazione degli artt. 62 e 64 CCNL delle attività ferroviarie, nonché dell’art. 2119 c.c., per erronea esclusione di riconduzione del comportamento extralavorativo contestato al ricorrente, alla ipotesi della prima norma collettiva di “minacce o ingiurie gravi verso altri dipendenti dell’azienda, o per manifestazioni calunniose o diffamatorie”, sanzionata in via conservativa con la sospensione dal servizio e la privazione della retribuzione da otto a dieci giorni; anziché della seconda, “per violazioni dolose di leggi, regolamento o dei doveri che possano arrecare o abbiano arrecato forte pregiudizio all’azienda o a terzi”, sanzionata con il licenziamento in tronco, in violazione del principio di proporzionalità.

L’attività intepretativa del giudice

Invero, per i giudici della Suprema Corte non si configura una ipotesi di violazione dell’art. 2119 c.c., in quanto si tratta di una norma “elastica”(quale indubbiamente è la clausola generale della giusta causa), che indica unicamente “parametri generali e pertanto presuppone da parte del giudice un’attività di integrazione giuridica della norma, cui sia data concretezza ai fini del suo adeguamento ad un determinato contesto storico-sociale”. Ed invero, ben può il giudice di legittimità censurare la sussunzione di uno specifico comportamento del lavoratore nell’ambito della giusta causa (piuttosto che del giustificato motivo di licenziamento), in relazione alla sua intrinseca lesività degli interessi del datore di lavoro. E allo stesso modo, la Cassazione può sindacare l’attività di integrazione del precetto normativo compiuta dal giudice di merito, a condizione che la contestazione del ricorrente non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga una specifica denuncia di incoerenza del predetto giudizio agli standards, conformi ai valori dell’ordinamento.

La decisione: dallo stalking al licenziamento

Ebbene, nel caso in esame, il lavoratore aveva censurato l’apprezzamento in fatto della corte territoriale, essendo invece insindacabile, in sede di legittimità, la valutazione della gravità della condotta operata –come nel caso di specie – sulla base di un congruo ragionamento argomentativo. Anche per i giudici della Suprema Corte non vi erano dubbi circa la proporzionalità della sanzione irrogata dal datore di lavoro nell’esercizio del suo potere discrezionale, al lavoratore per i fatti a lui contestati.

Per tutte queste ragioni, il ricorso è stato rigettato con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese di giudizio.

La redazione giuridica

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