Straining e integrità fisica del lavoratore, quale risarcimento?

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La responsabilità del datore di lavoro si configura per avere anche solo colposamente omesso di impedire che un ambiente di lavoro stressogeno provocasse un danno alla salute dei lavoratori. Con la decisione a commento la Cassazione torna ancora una volta sulla risarcibilità dello straining e afferma due importanti principi di diritto (Cassazione Civile, sez. lav., 16 febbraio 2024, n. 4279).

La vicenda

La lavoratrice impugna la sentenza con cui la Corte d’Appello di Bologna, confermando la decisione di primo grado del Tribunale di Bologna, rigettava la domanda volta ad ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti in seguito a comportamenti vessatori asseritamente adottati nei suoi confronti dal personale del Ministero della Giustizia, presso il quale aveva prestato servizio con la qualifica di funzionario giudiziario.

Censura la motivazione della Corte d’Appello nella parte in cui afferma che la lavoratrice, “fin dall’atto introduttivo del giudizio, avrebbe dovuto indicare la declaratoria contrattuale del proprio livello di inquadramento e raffrontare a quest’ultima le mansioni di fatto assegnatele al fine di consentire al Giudice quell’operazione logico-giuridica di confronto tra declaratoria contrattuale di inquadramento ed il contenuto delle mansioni esplicate che costituisce il presupposto indefettibile per la valutazione della lamentata dequalificazione professionale”.

In astratto, il principio affermato dalla Corte territoriale è parzialmente corretto, nel senso che è onere della parte ricorrente allegare e provare gli elementi di fatto posti a fondamento della domanda (secondo il principio generale sancito dall’art. 2697, comma 1, c.c.). Tali elementi di fatto consistono nel livello di inquadramento della lavoratrice e nella descrizione delle mansioni ad essa concretamente assegnate ed effettivamente svolte. Tuttavia, nell’ambito del pubblico impiego contrattualizzato, il Giudice deve conoscere ed applicare il contenuto dei contratti collettivi nazionali a prescindere da qualsiasi allegazione di parte, secondo il principio espresso dal brocardo iura novit curia, valido per le norme di diritto.

Perché la Corte d’Appello ha sbagliato

Ad ogni modo, ha errato la Corte d’Appello laddove ha affermato che la parte avrebbe dovuto – fin dall’atto introduttivo del primo grado e a pena di decadenza – anche “raffrontare” le mansioni a lei affidate con quelle previste dalla pertinente declaratoria del CCNL. Infatti, una volta “dedotte le mansioni svolte, nonché il comparto e il livello di inquadramento, è dovere del Giudice quello di porre a raffronto tali dati con la contrattazione applicabile, per verificare la fondatezza o meno dell’assunto, di cui consiste la domanda, secondo cui l’attività non sarebbe stata coerente con l’inquadramento formale”.

Con separata censura, la lavoratrice lamenta anche violazione o falsa applicazione dell’art. 2087 c.c. e 2043 c.c., anche alla luce dei principi costituzionali di cui agli artt. 32 e 97 Cost. nonché degli orientamenti della Suprema Corte sottesi alle categorie giurisprudenziali di mobbing e straining.

La sentenza della Cassazione

Gli Ermellini danno atto che la Corte di Bologna ha correttamente esaminato sia il profilo oggettivo (riscontrando che “risulta la prova positiva di pochissimi episodi”), sia quello soggettivo (escludendo che quei “pochissimi episodi” fossero manifestazione di un unificante intento persecutorio atto a configurare il mobbing).

I giudici di Appello hanno invece errato laddove ha ritenuto sufficiente escludere la configurabilità del mobbing lavorativo per rigettare totalmente la domanda di risarcimento del danno proposta dalla lavoratrice, nonostante l’ambito della responsabilità del datore di lavoro per il pregiudizio alla salute e alla personalità morale del lavoratore (art. 2087 c.c.) sia ben più ampio di quello occupato dalla specifica, e più grave, fattispecie del mobbing (vedi straining).

Tale carenza è del tutto illogica dal momento che la Corte d’Appello ha dato atto degli esiti, integralmente condivisi, della CTU medico-legale svolta in primo grado, la quale “ha chiaramente evidenziato che il disturbo dell’adattamento con aspetti emotivi ansioso depressivi di grado moderato e cronico sofferto dalla [ricorrente] si pone in nesso di causalità con la dequalificazione professionale” e che “i singoli episodi esaminati hanno inciso esclusivamente in termini di temporaneo aggravamento in un quadro generale già strutturato prima del settembre 2009”.

Non è corretto che la Corte d’Appello abbia rigettato integralmente la domanda di risarcimento del danno alla salute pur affermando l’esistenza di un “temporaneo aggravamento” della malattia dovuto proprio all’ambiente di lavoro stressogeno e ai “singoli episodi esaminati”.

Sul punto viene stigmatizzato che:

La riscontrata assenza degli estremi del mobbing non fa venire meno la necessità di valutare e accertare l’eventuale responsabilità del datore di lavoro per avere anche solo colposamente omesso di impedire che un ambiente di lavoro stressogeno provocasse un danno alla salute dei lavoratori (straining)”.

“In caso di accertata insussistenza dell’ipotesi di mobbing in ambito lavorativo, il giudice del merito deve comunque accertare se, sulla base dei medesimi fatti allegati a sostegno della domanda, sussista un’ipotesi di responsabilità del datore di lavoro per non avere adottato tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, erano possibili e necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore”.

Avv. Emanuela Foligno

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