Suicidio in un ospedale psichiatrico giudiziario, è possibile l’addebito di carenze organizzative?

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Nessun risarcimento per il padre del paziente suicidatosi in un ospedale psichiatrico giudiziario (Cass. civ., sez. III, 20 agosto 2024, n. 22970).

La questione riguarda la richiesta risarcitoria del padre della vittima per i danni non patrimoniali patiti in seguito alla morte del figlio, suicidatosi il 11/12/2008 mediante impiccagione mentre era detenuto presso un Ospedale psichiatrico giudiziario, per non essere stato adeguatamente sorvegliato, nonostante il quadro clinico denunciasse una situazione di pericolo per la sua incolumità.

Il Tribunale di Roma (sent. n. 17823/2015) rigetta la domanda di risarcimento proposta nei confronti del Ministero della Giustizia dal padre della vittima. In particolare, esperita la CTU, il Tribunale escludeva che dalla istruttoria emergesse il rischio specifico di condotta autolesiva, tale da rendere necessaria l’adozione di misure di contenimento fisico o di piantonamento continuativo del detenuto nella struttura ove era ricoverato. La struttura presentava tutti i requisiti tecnici e organizzativi previsti dalla legge per operare, senza che fosse stata denunciata alcuna specifica violazione della normativa di settore.

Anche la Corte d’appello di Roma (sent. n. 5462/2020) rigetta l’impugnazione del padre.

Il ricorso in Cassazione

Il congiunto della vittima contesta quanto affermato dalla Corte d’appello che, condividendo il primo grado, ha osservato che “durante l’internamento in ospedale psichiatrico giudiziario durato circa 13 mesi, la vittima era stata sottoposta costantemente ad adeguato trattamento terapeutico farmacologico e a ripetute visite psichiatriche, senza emersione di viraggio peggiorativo della sintomatologia psicopatologica, Difatti dall’ultima visita di controllo effettuata 8 giorni prima del suicidio, era emerso un quadro clinico stazionario e l’assenza di rischio suicidario. Lamenta, quindi, quindi che il CTU aveva ritenuto che i tre mesi di silenzio clinico apparissero espressione, comunque, di un comportamento erroneo degli psichiatri curanti, connotato quantomeno da profili di imprudenza e negligenza e tale da poter essere ricondotto sotto il profilo della concausalità all’evento infausto poi determinatosi”.

La Cassazione respinge le censure e conferma il secondo grado.

La Corte d’appello di Roma non ha omesso di considerare le circostanze lamentate dal congiunto ed ha ritenuto “di non attribuire efficienza causale al riscontrato silenzio clinico degli indicati 3 mesi” specificando cheera emerso un quadro clinico stazionario e l’assenza di rischio suicidario sino a tale data”. Inoltre, i Giudici di merito hanno sottolineato il difetto di efficienza causale rispetto a generici addebiti di carenze organizzative che il CTU afferma apoditticamente derivare dalla circostanza che sia stato possibile il verificarsi dell’evento suicidario in ora diurna.

Nella specie, il significato del “silenzio clinico” nell’ultimo trimestre di vita fino al decesso e le asserite “carenze organizzative del servizio infermieristico e comunque di vigilanza interna sui pazienti internati” e l’accadimento del fatto lesivo in pieno giorno sono entrambi fatti, rilevanti in causa, presi in considerazione dalla Corte d’appello, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.

Il “silenzio clinico”

La Corte romana ha ritenuto di non attribuire efficienza causale al riscontrato silenzio clinico intercorso tra il 9/9/2008 e il 3/12/2008 (data di effettuazione del test), sino all’evento suicidario avvenuto l’11/12/2008. I giudici specificano, in primo luogo, che sulla base di quanto rilevato dallo stesso CTU, nel corso dell’internamento in Ospedale Psichiatrico Giudiziario, il giovane detenuto era stato sottoposto costantemente ad adeguato trattamento terapeutico farmacologico e ad assidue visite psichiatriche e, senza emersione di viraggio peggiorativo della sintomatologia psicopatologica. Tant’è che dall’ultima visita di controllo effettuata, con somministrazione del test BPRS, ossia otto giorni prima del suicidio, “era emerso un quadro clinico stazionario e l’assenza di rischio suicidario sino a tale data”.

In secondo luogo, i Giudici di secondo grado hanno sottolineato “il difetto di efficienza causale rispetto a generici addebiti di carenze organizzative che il CTU afferma apoditticamente derivare dalla circostanza che sia stato possibile il verificarsi dell’evento suicidario in ora diurna” in quanto la storia clinica della vittima, come ricostruita dallo stesso CTU, non era tale da imporre specifiche misure cautelative o sorveglianza cautelativa. La patologia da cui era affetto il paziente (diagnosi di schizofrenia paranoidea e disturbo da dipendenza di sostanze) era comunque stata sempre adeguatamente trattata farmacologicamente con neurolettici, antiepilettici, benzodiazepine e psicolettici, conseguentemente è stata correttamente specificamente esclusa la prevedibilità ex ante della condotta che ha portato alla morte del detenuto.

Ergo non si può discorrere di responsabilità dei sanitari e della struttura penitenziaria per la mancata adozione di cautele specifiche.

 Avv. Emanuela Foligno

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