L’intervento veniva attuato con la scelta di tecniche chirurgiche non corrette e non indicate alla sintomatologia dolorosa causando un peggioramento della patologia

Un uomo cita in giudizio dinanzi al Tribunale di Roma (sentenza n. 14499 del 21 ottobre 2020), l’ICOT di Latina onde vederne accertata la responsabilità professionale per un intervento eseguito con tecniche chirurgiche non corrette.

Essendo affetto da sintomatologia dolorosa dovuta a “lombosciatalgia sx con discopatia con insufficienza statica”, in data 23.07.2008 si sottoponeva a intervento chirurgico di erniartrectomia ed emilaminectomia L5S1.

A causa della permanenza della sintomatologia dolorosa e dell’impotenza funzionale il paziente veniva sottoposto, nel 2009 e successivamente nel 2011, ad altri due interventi chirurgici presso diverse strutture sanitarie, ma residuava comunque una sofferenza discale L5S1.

Il paziente deduce che l’intervento eseguito presso l’ICOT di Latina, non era adeguato alla patologia da cui era affetto e che non veniva eseguito correttamente,  sia perché veniva effettuato a cielo aperto e non attraverso l’uso della tecnica della microdiscectomia, sia perché veniva eseguita anche la rimozione articolare della vertebra creando così una instabilità vertebrale.

Lamenta, quindi, che a seguito di detto intervento sono insorti sindrome da Failed back surgery con sintomatologia dolorosa cronica, sofferenza radicolare cronica di L5-S1, instabilità vertebrale con deficit neurologici e gravi limitazioni posturali.

Si costituisce in giudizio la struttura deducendo che l’intervento chirurgico era adeguato alla patologia e veniva eseguito senza difficoltà, con l’adozione di tecniche conformi ai protocolli sanitari.

La causa viene istruita attraverso CTU Medico-legale.

La CTU evidenzia: ” dalla disamina della documentazione in atti è possibile sostenere che la procedura chirurgica adottata dai sanitari dell’ICOT di Latina il 23.07.2008 presenta un’inappropriata opzione tecnica avendo contemporaneamente effettuato una emilaminectomia L5 sinistra ed artrectomia inferiore di L5 omolaterale, determinando un insulto iatrogeno del complesso faccettale L5-S1 sinistro, causa attuale dell’instabilità minore. Inoltre, già dalle stesse immagini RM lombari postoperatorie emerge la presenza di fibrosi cicatriziale sinistra con microinstabilità da errata esecuzione del primo trattamento chirurgico, che rendeva poi necessario l’intervento di revisione il 27.03.2009 presso altra struttura ospedaliera nel corso del quale veniva posizionato un distanziatore interspinoso nonché praticata una foraminotomia con liberazione delle radici L5 e S1 di sinistra. Dunque, la condotta dei chirurghi che ebbero a sottoporre il paziente ad intervento chirurgico il 23.07.2008 risulta gravata da censura tenuto conto che la lesione discale era chiaramente endospecale e dunque suscettibile di tecnica chirurgica di possibile risparmio delle faccette articolari evitandone il coinvolgimento nella fase di esposizione della patologia…”

I CTU hanno quindi concluso nel senso che “il trattamento chirurgico oggetto di causa è intervento routinario che non comportava rischi considerevoli se non quelli legati ad ogni trattamento chirurgico in generale…non risulta essere stato condotto adeguatamente al caso specifico anche in riferimento all’epoca in cui veniva praticato”.

I postumi permanenti vengono quantificati nella misura del 20%, con danno differenziale pari al 15%.

Il Tribunale ritiene fondata la domanda di responsabilità professionale avanzata dal paziente in quanto i sanitari che hanno eseguito l’intervento del 23.07.2008 non hanno operato con la diligenza e la prudenza necessaria a raggiungere il risultato prefisso e a cui l’intervento mirava.

L’intervento è stato attuato con la scelta di tecniche chirurgiche non corrette ed indicate per il caso specifico, e da ciò è derivato un peggioramento della patologia che affliggeva l’uomo.

In presenza di un danno biologico complessivamente valutato in misura del 20%, la percentuale di maggior danno causato dall’intervento chirurgico è pari al 15%.

Ai fini della liquidazione del danno, al maggior danno permanente stimato in misura pari al 15%, viene aggiunto il periodo di invalidità assoluta e relativa che il paziente ha dovuto sopportare, valutato dal CTU in complessivi giorni 60 di invalidità temporanea assoluta ed in giorni 60 di invalidità temporanea parziale al 50%.

Relativamente al danno biologico viene liquidato equitativamente l’importo di euro 51.318,66, oltre al periodo di inabilità temporanea, per un totale complessivo di euro 61.272,66.

Il Tribunale, inoltre, ritiene di personalizzare il danno non patrimoniale, maggiorando il danno biologico complessivo in misura pari al 20%, corrispondente a euro 12.254,53, addivenendosi all’importo complessivo di euro 73.527,19.

Riguardo il danno patrimoniale invocato, viene riconosciuto al paziente il danno da lucro cessante conseguente alla mancata disponibilità della somma dovuta per il periodo intercorso dal fatto lesivo (luglio 2008), sino alla decisione.

Tale voce viene liquidata applicando i criteri cristallizzati dalla Suprema Corte, secondo cui, posto che la prova del lucro cessante può essere ritenuta anche sulla base di criteri presuntivi ed equitativi, è “consentito calcolare gli interessi con riferimento ai singoli momenti, con riguardo ai quali la somma equivalente al bene perduto si incrementa nominalmente, in base agli indici prescelti di rivalutazione monetaria, ovvero mediante un indice medio.

Viene presa, quindi, a base de calcolo la semisomma dei due valori considerati (valore attuale e valore dovuto all’epoca della lesione), e applicato il tasso medio di rendimento dei titoli di stato.

Applicando tali criteri, la somma dovuta a titolo di danno da lucro cessante è pari ad euro 14.238,11(66.062,16 +73.527,19 = 139.589,35:2 = 69.794,67 poi 1,7% annuo).

Pertanto la somma complessivamente dovuta dalla Struttura in favore del paziente a titolo di risarcimento del danno è pari ad euro 87.765,3.

Inoltre, la CTU ha anche determinato una perdita della capacità lavorativa specifica, evidenziando che il paziente non potrà più svolgere l’attività di autista di veicoli pesanti.

Valutando le dichiarazioni dei redditi del danneggiato degli anni 2006, 2007 e 2009, e operando una media di tali redditi, il Tribunale stima un reddito annuo pari a euro 3.750,40 ricollegabile al lavoro di autista di mezzi pesanti.

Per la liquidazione della voce, non viene applicato il triplo della pensione sociale, ma viene considerato il reddito medio percepito anteriormente all’illecito, addivenendosi all’importo di euro 56.874,81.

Considerato che i CTU hanno riconosciuto una percentuale di postumi permanenti derivanti dall’errore medico pari al 15%, la riduzione della capacità lavorativa specifica viene attribuita in tale percentuale, con la conseguenza che il risarcimento per la lesione della capacità lavorativa specifica viene liquidato in euro 8.531,22 (pari al 15% di 56.874,81).

Dall’importo complessivamente dovuto al danneggiato viene decurtata la pensione Inps percepita per la patologia derivante dall’illecito nella misura di 1/3.

Pertanto, viene detratta la somma corrispondente al valore capitale di un terzo della rendita, ossia una somma pari ad euro 43.953,00 (euro 96,6 – pari a 1/3 della rendita – moltiplicato per 13 mensilità, poi moltiplicato per il numero di anni di percezione della rendita – anni 35- sulla base dell’aspettativa di vita media pari attualmente per un uomo a circa 81 anni).

La Struttura sanitaria viene condannata a rifondere al paziente l’importo di euro 52.343,52 e le spese di lite.

Avv. Emanuela Foligno

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