A causa del trattamento eparinico post chirurgico il paziente, privo di rischio trombotico, veniva colto da tromboembolia massiva dell’arteria polmonare (Cassazione Civile, sez. III, sentenza n. 6248 depositata il 05/03/2021)
I congiunti del paziente deceduto citavano a giudizio dinanzi al Tribunale di Gorizia, l’Azienda per i Servizi Sanitari, il Medico di Base e il Fisiatra per vedere accertare la loro responsabilità medica che determinava un’embolia polmonare ed il decesso del congiunto.
Gli attori deducevano che il paziente veniva sottoposto ad un intervento chirurgico per la lesione di un tendine e trattato, in sede post-operatoria, con apparecchio gessato e terapia eparinica, prima dai Medici della Struttura sanitaria fino alle dimissioni, e successivamente dal Medico di base.
Il paziente riferiva al Medico di base un episodio di dispnea, di cui però lo stesso, effettuando una visita domiciliare sia quel giorno, sia il giorno successivo, non ravvisava elementi compatibili con un rischio trombotico, annotando un “episodio lipotimico” con abbassamento della pressione, trattato e risolto nel corso della visita.
Il paziente, sottoposto a rimozione del gesso e a visita del Fisiatra, nel mentre il medesimo effettuava manovre per verificare la funzionalità dell’arto, veniva colto da tromboembolia massiva dell’arteria polmonare e decedeva.
Costituito il contraddittorio con i convenuti e con le terze chiamate in causa, Compagnie di Assicurazione, il Tribunale, previo espletamento di CTU Medico-Legale, con sentenza n. 254 del 30/4/2015, rigettava la domanda ritenendo condivisibili le conclusioni della CTU sia quanto alla non esigibilità di una diversa e maggiore somministrazione di eparina, sia quanto all’assenza di nesso causale tra il comportamento dei Sanitari ed il danno con riguardo alle attività poste in essere dalla Struttura, dal Medico di base e dal Fisiatra.
La decisione veniva impugnata in appello per la contraddittoria ed insufficiente motivazione sull’esclusione del nesso causale tra la morte e le condotte dei Medici, il vizio di motivazione per acritica adesione alle tesi del CTU e mancata considerazione delle critiche del CTP, nonchè l’insufficiente istruttoria ed omesso esame delle fonti di prova.
La Corte d’Appello di Trieste, con sentenza n. 935 del 21/12/2017, non ammette le richieste istruttorie e rigetta l’appello.
La Corte territoriale così motiva:
“1) sul rapporto tra obesità e profilassi, doveva essere esclusa la doverosità (e quindi l’esigibilità) da parte dei Medici di una condotta – diversa da quella effettivamente posta in essere che avrebbe scongiurato il decesso, con particolare riguardo alle dosi di eparina somministrate;
2) in ogni caso, mancava la prova che una condotta alternativa avrebbe scongiurato il decesso;
3) l’accertamento del CTU, circa la correttezza del riferimento alle dosi indicate nelle schede tecniche, era da condividere avendo il medesimo anche confutato le osservazioni critiche di parte;
4) il rischio di tromboembolia massiva polmonare conseguente all’immobilizzazione non si era reso palese al Medico di base in assenza di sintomatologia;
5) il ruolo causale del Fisiatra nella produzione del decesso era nullo;
6) non erano fondate le censure degli appellanti sul fatto che l’onere probatorio in ordine al nesso causale incombesse necessariamente sui danneggiati, dovendosi ritenere esclusa, secondo la regola del più probabile che non, la colpa professionale dei sanitari coinvolti;
7) le prove storiche di cui si chiedeva l’acquisizione erano ininfluenti in una vicenda dall’elevato tecnicismo, da risolversi in base a valutazioni basate su documenti descriventi con estrema oggettività il quadro clinico e le terapie praticate, e non anche in base a percezioni soggettive.”
La decisione d’appello viene impugnata per Cassazione dai soccombenti che lamentano un diverso comportamento esigibile dai Medici, omessa ammissione di prova testimoniale, omesso rinnovo della CTU e violazione della regola probabilistica per la ricostruzione del nesso causale.
Il primo motivo è inammissibile in quanto la violazione dell’art 132 cpc sussiste solo se la motivazione è del tutto mancante, nel senso che alla premessa dell’oggetto del decidere risultante dallo svolgimento del processo segue l’enunciazione della decisione senza alcuna argomentazione, ovvero che essa formalmente esista come parte del documento, ma le sue argomentazioni non permettono di individuarla.
Infatti, la sentenza d’appello gravata è fornita di motivazione ed è compiutamente articolata.
Il secondo motivo, pur suscitando qualche perplessità sull’omessa acquisizione delle prove storiche in quanto la sentenza è sul punto apodittica (“prove ininfluenti in vicenda che comporta un elevato tecnicismo”), è inammissibile per violazione dell’art. 366 c.p.c., nn. 3 e 6.
Infatti, i ricorrenti avrebbero dovuto indicare quali sarebbero stati i capitoli di prova decisivi per il giudizio, indicare dove li avessero formulati e proporre una valutazione prognostica del perchè la loro ammissione avrebbe condotto il Giudice ad una diversa decisione.
Invero, sottolineano gli Ermellini, potrebbe astrattamente considerarsi fondata la violazione dell’art. 115 cpc relativamente agli atti del processo penale, ma la stessa sarebbe comunque priva di decisività, da un lato, perchè detti atti avrebbero potuto essere depositati dagli attori, in secondo luogo perchè la censura, più che sotto il profilo della violazione dell’art. 115 c.p.c., è prospettata come omesso esame di un fatto decisivo e, siccome riguarda fatti incontestabilmente uguali, esaminati dal Giudice del merito con una doppia conforme, sarebbe inammissibile ex art. 348 ter c.p.c.
Inoltre, il CTU, pur non motivando sulle ragioni della diversa conclusione della CTP del P.M. (che affermava una possibilità di sopravvivenza al 75% qualora fossero stati intercettati i sintomi di tromboembolia – dispnea, dolori al petto e difetti visivi denunciati dal paziente – ed effettuati ulteriori accertamenti anche in presenza di valori del sangue notevolmente al di sotto del range per un soggetto in terapia eparinica), ne viene dato conto nelle premesse in fatto della sentenza. Oltretutto , essendo la CT del P.M. un atto di parte, non era neppure esigibile che il CTU prendesse posizione su di essa.
Il terzo e quarto motivo di impugnazione sono anch’essi inammissibili.
Gli stessi sostengono pretese inadempienze da parte dei Medici, in particolare mancato approfondimento degli esami ematochimici e mancato monitoraggio del paziente, che non hanno costituito oggetto di contraddittorio nei gradi di merito.
La sentenza impugnata ha pertanto applicato correttamente i principi sul nesso causale e i motivi non si sottraggono neppure al rilievo della loro inammissibilità ex art. 360 bis c.p.c.
Sulla prova del nesso causale nella responsabilità sanitaria a carico del danneggiato è ormai pacifico e consolidato –ribadisce la Suprema Corte-, che è lo stesso a dover provare il nesso causale tra il danno e la condotta del sanitario in base al principio del “più probabile che non”.
Solo all’esito dell’assolvimento da parte del danneggiato di tale onere, il Sanitario deve provare la causa imprevedibile ed inevitabile dell’impossibilità esatta della prestazione.
Invece, i ricorrenti pretendono di sentire affermare che, nella solo postulata incertezza del nesso causale tra il comportamento dei Medici ed il danno -incertezza assente nel caso in esame-, l’onere dell’incertezza debba ricadere sui Medici curanti, o che comunque gli stessi avrebbero dovuto dare prova dell’inefficacia di una soluzione alternativa a quella sperimentata.
Ebbene, la sentenza d’appello, avendo escluso in radice la prova del nesso causale da parte del creditore, si colloca nell’ormai consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo il quale “è sempre il creditore a dover provare l’inadempimento ed il nesso di causalità mentre, solo all’esito di tale prova assolta dal creditore, il debitore deve provare – l’adempimento o la causa esterna imprevedibile o inevitabile alla stregua dell’ordinaria diligenza e dell’impossibilità sopravvenuta della diligenza professionale”.
In conclusione, il ricorso viene dichiarato inammissibile e i ricorrenti vengono condannati a pagare in favore di ciascuna parte resistente le spese di giudizio liquidate in euro 3.200,00.
Inoltre, viene dato atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.
Avv. Emanuela Foligno
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