Respinto il ricorso di un motociclista che invocava la responsabilità del Comune per essere stato travolto da un’auto in prossimità di una intersezione stradale

Aveva convenuto in giudizio il Comune di Roma chiedendo che fosse dichiarato responsabile, ai sensi degli artt. 2051 o 2050 cod. civ. ovvero, in subordine, dell’art. 2043 cod. civ., dei danni da lui subiti in un sinistro verificatosi in ora notturna presso un incrocio stradale. Il motociclista, nello specifico, sosteneva di aver rallentato la propria marcia in prossimità dell’intersezione ma, nel momento di attraversamento, era stato travolto da un’auto che proveniva da sinistra a velocità non moderata, riportando gravi danni personali. La responsabilità dell’impatto, a suo dire, era da ricondurre all’incuria dell’Amministrazione la quale aveva lasciato che detto incrocio perpendicolare fosse privo di illuminazione pubblica e con una segnaletica di stop, orizzontale e verticale, del tutto insufficiente; ciò potendosi tuttavia configurare una concorrente responsabilità del conducente della vettura antagonista.

In primo grado il Tribunale, espletata prova per interpello e per testi e fatta svolgere una c.t.u., aveva stabilito che la responsabilità dell’incidente fosse da porre a carico del convenuto nella misura 25 per cento e aveva quindi condannato il Comune al pagamento della somma di euro 35.280,43, oltre che al pagamento delle spese di giudizio.

La pronuncia era stata riformata in sede di appello.

La Corte territoriale aveva osservato, infatti, che l’incidente era da ricondurre a responsabilità esclusiva del danneggiante con eventuale concorso di colpa dell’altro conducente, mentre era da escludere ogni responsabilità di Roma Capitale. Poiché nell’atto di citazione lo stesso attore aveva dichiarato di aver rallentato la marcia approssimandosi all’incrocio prima di essere travolto da un’auto, egli non poteva poi ricondurre la causa dell’incidente all’omessa segnaletica stradale. Anche il verbale della Polizia municipale, del resto, confermava che, nonostante il segnale verticale di stop fosse leggermente piegato in avanti e ruotato lievemente a sinistra rispetto al senso di marcia della moto, tuttavia esso era ugualmente ben visibile. Era quindi da dedurre che l’incidente fosse avvenuto perché l’attore non si era affatto fermato all’incrocio ovvero perché la vettura antagonista marciava a velocità tale da rendere l’urto inevitabile.

Nel rivolgersi alla Suprema Corte, il ricorrente sosteneva che la sentenza in esame avrebbe attribuito erroneamente un valore confessorio alle affermazioni contenute nell’atto di citazione, senza considerare che l’interrogatorio formale del ricorrente non aveva fatto scaturire alcuna confessione. Inoltre evidenziava che, per aversi confessione, ad avviso del ricorrente, occorre che vi sia il riconoscimento di fatti sfavorevoli al dichiarante e favorevoli alla controparte, accompagnate dall’animus confitendi. Nella specie, invece, quanto scritto in citazione — e cioè che egli aveva rallentato la propria marcia all’approssimarsi dell’incrocio — non poteva rappresentare una confessione, tanto più che le dichiarazioni rese all’interrogatorio formale non avevano affatto un contenuto di confessione.

La Suprema Corte, con l’ordinanza n. 17890/2020 ha ritenuto le doglianze proposte inammissibili.

Per gli Ermellini, infatti, la Corte d’appello non aveva affatto attribuito valore confessorio al contenuto dell’atto di citazione, ma aveva compiuto una valutazione globale delle prove, alla luce del verbale della Polizia municipale, dei rilievi e delle prove testimoniali. Di conseguenza, una confessione come tale non era stata riconosciuta esistente, per cui le censure dimostravano di non cogliere la ratio decidendi della sentenza impugnata.

La redazione giuridica

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