Il termine decadenziale per richiedere l’indennizzo dei danni derivanti da vaccinazione obbligatoria antipolio decorre dalla conoscenza del danno e del relativo nesso eziologico

Anche in relazione alle domande di indennizzo proposte dai soggetti danneggiati da vaccinazione non obbligatoria antipolio, il termine decadenziale previsto dalla legge per richiedere la relativa prestazione decorre non dalla sola conoscenza della patologia, ma dalla conoscenza del danno e del relativo nesso eziologico. E’ il principio affermato dalla Cassazione con l’ordinanza n. 12036/2021.

Gli Ermellini si sono pronunciati sul ricorso di un cittadino contro la decisione dei Giudici del merito di rigettare la sua domanda volta alla corresponsione dell’indennizzo ex articolo 1 legge 210/92 per decorso del termine quadriennale di decadenza previsto dall’articolo 3, co. 3, legge 362/99 in materia di vaccinazione antipolio non obbligatoria, e comunque per non riconducibilità della patologia sofferta alla vaccinazione antipolio, essendo la prima insorta diverso tempo dopo la seconda.

Nel rivolgersi alla Suprema Corte, il ricorrente deduceva che la sentenza impugnata avesse trascurato che – all’esito di pronuncia costituzionale n. 27/98 – ai soggetti danneggiati da vaccinazione non obbligatoria antipolio compete lo stesso trattamento previsto per gli emotrasfusi e gli assistiti obbligatoriamente vaccinati dalla legge 210/92, con conseguente decorrenza del termine decadenziale dalla conoscenza del danno e del relativo nesso causale, dovendo così interpretarsi l’articolo 3, co.3, in modo costituzionalmente compatibile con il diritto alla salute; nella specie la conoscenza del danno e del nesso causale era intervenuta quando il termine non era decorso.

L’attore contestava poi alla Corte di appello di aver fondato la propria decisione sulle risultanze della cartella clinica del 1969, richiamata solo in appello dal ministero, dalle quali emergeva il tardivo insorgere della patologia rispetto alla vaccinazione e dunque la sua non riconducibilità causale alla stessa. Infine eccepiva che il Collegio distrettuale avesse attribuito fede privilegiata ad annotazione della cartella clinica predetta, sebbene non riguardante attività espletata durante l’intervento.

La Cassazione, nel respingere il ricorso, ha chiarito che l’estensione, disposta con legge, ai danneggiati da vaccinazione non obbligatoria antipolio delle tutele previste dalla legge 210/92 per gli emotrasfusi ed gli assistiti obbligatoriamente vaccinati, implica l’applicazione dei principi giurisprudenziali affermati per questi ultimi in ordine alle prestazioni assistenziali previste, ivi incluso il principio che fa decorrere il termine decadenziale per richiedere la prestazione non dalla sola conoscenza della patologia, ma dalla conoscenza del danno e del relativo nesso eziologico.

Dal Palazzaccio hanno quindi osservato che già in fattispecie simile a quella in esame, la Suprema Corte aveva applicato tale principio, dando rilievo espressamente alla conoscenza del danno e del relativo nesso causale, osservando che “il termine triennale (alla stregua delle modifiche introdotte con legge n. 238 del 1997, art. 1, comma 9, al testo dell’art. 3, comma 1, della legge n. 210) decorre dal momento in cui, sulla base della documentazione prescritta nella norma, l’avente diritto risulti aver avuto conoscenza del danno, in tal senso richiedendosi la consapevolezza dell’esistenza di una patologia ascrivibile causalmente alla vaccinazione, dalla quale sia derivato un danno irreversibile che possa essere inquadrato – pur alla stregua di un mero canone di equivalenza e non già secondo un criterio di rigida corrispondenza tabellare – in una delle infermità classificate in una delle otto categorie di cui alla tabella 13 annessa al testo unico approvato con d.P.R. 23 dicembre 1978, n. 915, come sostituita dalla tabella A allegata al d.P.R. 30 dicembre 1981, n. 834”.

Tanto premesso in linea generale, doveva rilevarsi che la Corte territoriale aveva valutato le prove offerte dalle parti ed aveva attribuito rilevanza – ritenuta preponderante rispetto alle dichiarazioni testimoniali dei genitori dell’assistito – alle risultanze di cartella clinica del 1969, nella quale era indicato l’insorgere della patologia diversi mesi dopo la vaccinazione, con la conseguente non riconducibilità causale della patologia (che ha un periodo di incubazione di non più di 14 giorni) alla vaccinazione.

“Deve rilevarsi in proposito – hanno aggiunto i Giudici di Piazza Cavour – che la cartella clinica è stata ritualmente prodotta in primo grado e considerata dal ctu nominato dal giudice in quel grado, come risulta espressamente dalla sentenza impugnata; il ricorrente lamenta solo la tardività della contestazione (effettuata solo in appello) da parte del ministero circa la consapevolezza dell’assistito desumibile dalla detta cartella clinica. La deduzione è però irrilevante, non essendovi tanto questione di conoscenza dell’origine della patologia ai fini del decorso del termine decadenziale, quanto – più a monte – questione dell’assenza di derivazione causale della patologia dalla vaccinazione, come rilevato dalla corte territoriale. Infine, va rilevato che la corte territoriale ha valutato correttamente le prove raccolte, dando maggiore credibilità alla cartella clinica in ragione della sua obiettività rispetto alle dichiarazioni testimoniali dei genitori dell’assistito, e non ha attribuito alcuna fede privilegiata alle risultanze della cartella, limitando ad effettuare una valutazione — tipica dell’attività del giudice di merito, censurabile in cassazione nei soli limiti (oggi esigui) di deducibilità del vizio di motivazione- del materiale probatorio raccolto”. 

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