Respinto il ricorso di una paziente che invocava la responsabilità di medici e struttura per la violazione del consenso informato in relazione agli interventi chirurgici effettuati
“In tema di responsabilità professionale del medico, in presenza di un atto terapeutico necessario e correttamente eseguito dal quale siano tuttavia derivate conseguenze dannose per la salute, ove tale intervento non sia stato preceduto da un’adeguata informazione del paziente circa i possibili effetti pregiudizievoli non imprevedibili, il medico può essere chiamato a risarcire il danno alla salute solo se il paziente dimostri, anche tramite presunzioni, che, ove compiutamente informato, egli avrebbe verosimilmente rifiutato l’intervento, non potendo altrimenti ricondursi all’inadempimento dell’obbligo di informazione alcuna rilevanza causale sul danno alla salute” . E’ il principio ribadito dalla Cassazione nell’ordinanza n. 8163, con la quale gli Ermellini hanno respinto il ricorso di una donna che aveva agito in giudizio affinché fosse accertata la responsabilità solidale di medici e struttura sanitaria nella causazione degli eventi lesivi dalla stessa subiti a seguito di interventi chirurgici effettuati per violazione del consenso informato, con conseguente condanna al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti.
La paziente, nello specifico assumeva di non aver ricevuto un’adeguata informazione in ordine alle complicanze possibili degli interventi effettuati, in particolare circa la possibile comparsa di un laparocele quanto al primo intervento e al rischio di lesione dell’uretere quanto al secondo intervento.
La Corte d’Appello, nel confermare la pronuncia del Tribunale, aveva respinto la pretesa dell’attrice ritenendo che questa avrebbe dovuto dare prova del fatto che, ove fosse stata correttamente informata dei possibili esiti delle operazioni, avrebbe rifiutato l’intervento.
Il Collegio territoriale, nello specifico, aveva rilevato che l’appellante non aveva nulla allegato circa le ragioni per cui aveva precedentemente rifiutato di sottoporsi all’intervento e che il suo consenso all’operazione doveva ritenersi implicito nell’aver sottoscritto un foglio nel quale erano prospettate complicanze potenzialmente ben più gravi (quali la lesione di organi endoaddominali) di quelle effettivamente verificatesi.
Quanto al distinto danno per violazione del diritto all’autodeterminazione, quale riflesso del diritto alla libertà personale, il Giudice di appello aveva configurato in astratto i confini della sua risarcibilità (non aver ottenuto un’adeguata informazione e quindi non essersi potuto liberamente determinare sul sottoporsi o meno all’intervento; con riguardo al diritto alla salute qualora fosse stato correttamente informato poter evitare di sottoporsi all’intervento e di subirne le conseguenze invalidanti), lo aveva distinto dal diritto alla salute identificandolo con una forma di rispetto per la libertà dell’individuo ed un mezzo per il perseguimento dei suoi interessi che si sostanzia non solo nella facoltà di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico ma anche di eventualmente rifiutare la terapia o di decidere consapevolmente di interromperla, atteso il principio personalistico che anima la nostra Costituzione la quale vede nella persona umana un valore in sé e ne sancisce il rispetto in qualsiasi momento della sua vita e nell’integralità della sua persona in considerazione del fascio di convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche che orientano le sue determinazioni volitive. Esso trova fondamento nell’art. 2 Cost. e negli artt. 13 e 32 Cost.. Dunque “può assumere rilievo a fini risarcitori benché non sussista la lesione della salute o se la lesione della salute non sia causalmente collegabile alla lesione di quel diritto, quante volte siano configurabili conseguenze pregiudizievoli di apprezzabile gravità se integranti un danno non patrimoniale, che siano derivate dalla violazione del diritto fondamentale all’autodeterminazione in se stesso considerato”.
Quanto alla lesione del diritto alla salute, rispetto al quale il diritto all’autodeterminazione era stato invocato, la Corte territoriale aveva fatto riferimento all’onere della paziente di provare, anche mediante presunzioni, che, qualora fosse stata adeguatamente informata, avrebbe rifiutato l’intervento, ed aveva ritenuto che a tale onere ella non avesse ottemperato, con la conseguenza che alcuna valutazione, neppure presuntiva, fosse possibile effettuare circa la sussistenza di una voce di danno.
Ad avviso della Corte territoriale il rispetto al diritto all’autodeterminazione del paziente deve essere valutato in concreto, tenendo presenti le reali possibilità di scelta che si ponevano nel caso in cui fosse stato adeguatamente informato per cui la rilevanza causale del mancato consenso sussiste soltanto quando una tale disinformazione abbia comportato una scelta terapeutica che altrimenti sarebbe stata con elevata probabilità rifiutata o modificata dal paziente stesso. La paziente, quindi, avrebbe dovuto dar prova di una condizione di risarcibilità del danno, mentre gli esiti terapeutici degli interventi chirurgici erano stati, ad avviso del giudice, sopravvalutati quali complicanze possibili degli interventi medesimi.
Nel rivolgersi alla Suprema Corte la ricorrente assumeva che la sentenza impugnata avesse una motivazione contraddittoria perché d’un lato, aveva ammesso che l’atto di acquisizione del consenso informato era lacunoso e, dall’altro, aveva erroneamente invertito l’onere della prova ritenendo che dovesse essere il paziente a provare di non aver ricevuto idonea informazione.
La Cassazione, tuttavia, ha ritenuto il motivo infondato.
La sentenza impugnata aveva accertato, infatti, che la paziente non aveva fornito la prova che, qualora fosse stata idoneamente informata, avrebbe comunque deciso di non sottoporsi all’intervento, con ciò conformandosi alla consolidata giurisprudenza di legittimità che configura il diritto all’autodeterminazione quale diritto autonomo e distinto rispetto al diritto alla salute e ne individua il fondamento negli artt. 2,13 e 32 Cost., richiedendo altresì un giudizio controfattuale su quale sarebbe stata la scelta del paziente ove fosse stato correttamente informato atteso che, se avesse prestato senza riserve il consenso a quel tipo di intervento, la conseguenza dannosa si sarebbe dovuta imputare esclusivamente alla lesione del diritto alla salute determinata dalla successiva errata esecuzione della prestazione professionale, mentre, se egli avesse negato il consenso, il danno biologico scaturente dalla inesatta esecuzione della prestazione sanitaria sarebbe riferibile “ab origine” alla violazione dell’obbligo informativo e concorrerebbe unitamente all’errore relativo alla prestazione sanitaria alla sequenza causale produttiva della lesione della salute quale danno conseguenza.
La giurisprudenza è in particolare consolidata nel senso di ritenere che le conseguenze dannose derivanti dal diritto all’autodeterminazione debbano essere debitamente allegate dal paziente tenuto conto che il presupposto della domanda risarcitoria è costituito dalla sua scelta soggettiva (criterio della vicinanza della prova) essendo il discostamento dalle indicazioni terapeutiche del medico, eventualità non rientrante nell’id quod plerunque accidie al riguardo la prova può essere fornita con ogni mezzo, ivi compreso il notorio, le massime di esperienza e le presunzioni, non essendo configurabile un danno risarcibile “in re ipsa”.
La redazione giuridica
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