Violenza privata e lesioni fisiche inferte alla convivente che viene costretta a non interrompere la relazione (Cass. pen., sez. V, dep. 25 maggio 2022, n. 20346).

Violenza privata in danno della convivente: l’uomo viene condannato per violenza privata per avere costretto la donna a non interrompere la relazione.

Anche la Suprema Corte conferma quanto deciso dai Giudici di merito riguardo la costrizione nei confronti del partner a non interrompere la relazione sentimentale, e la condanna a otto mesi di reclusione.

E’ da considerarsi violenza privata pretendere che il partner prosegua forzatamente la relazione e non interrompa la convivenza.

I Giudici di merito hanno ritenuto penalmente rilevante la condotta aggressiva tenuta dall’uomo nei confronti della compagna e finalizzata a costringere la donna a non interrompere la relazione sentimentale.

La Corte d’appello di Torino ha confermato la condanna, resa dal GIP in relazione al reato di violenza privata, alla pena di mesi otto di reclusione.

L’imputato, ricorre in Cassazione deducendo, con il primo motivo, inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 610 c.p., in relazione al capo 1) e correlato vizio di motivazione. Afferma che, tenuto conto degli elementi costitutivi del reato di violenza privata, considerato il contesto in cui si sono svolti i fatti il comportamento preteso dall’imputato (diretto a non farsi lasciare dalla persona offesa, a non interrompere la relazione tra loro), non costituirebbe oggetto di condotta coartatrice, non potendo il rapporto tra due persone, in quanto integra una relazione, essere imposto con violenza o minaccia. In definitiva, per il ricorrente, il “mantenimento” di una relazione non potrebbe essere oggetto di imposizione altrui, sicché unica condotta configurabile sarebbe quella, eventualmente, della minaccia.

Con il secondo motivo deduce che non vi sarebbe stata alcuna condotta violenta connessa all’azione di deterioramento del rapporto sentimentale e a questo strumentale, non risultando sufficiente che il danneggiamento avvenga in occasione di condotte minatorie e violente.

Il ricorso è inammissibile.

L’imputato si rivolge alla Cassazione deducendo che “il rapporto tra due persone, in quanto integra una relazione, non può essere imposto con violenza o con minaccia”, e che dunque on può discorrersi di violenza privata.

L’uomo sostiene che il comportamento a lui attribuito, e «diretto a non farsi lasciare dalla compagna e a non interrompere la relazione sentimentale», non è catalogabile come «condotta coartatrice».

Gli Ermellini evidenziano, invece, che il ragionamento dei Giudici di merito è conforme all’indirizzo secondo il quale l’elemento oggettivo del reato di violenza privata è costituito da una violenza o da una minaccia che abbiano l’effetto di costringere taluno a fare, tollerare, od omettere una determinata cosa.

In tale contesto, la condotta violenta o minacciosa deve atteggiarsi alla stregua di mezzo destinato a realizzare un evento ulteriore: la costrizione della vittima a fare, tollerare od omettere qualche cosa.

Ne consegue che il delitto di violenza privata non è configurabile qualora gli atti di violenza e di natura intimidatoria integrino, essi stessi, l’evento naturalistico del reato, vale a dire il pati cui la persona offesa sia costretta: l’evento del reato, nell’ipotesi di ricorso alla violenza, non può coincidere con il mero attentato all’integrità fisica della vittima o anche solo con la compressione della sua libertà di movimento conseguente e connaturata all’aggressione fisica subita.

Per quanto riguarda il reato di danneggiamento, lo stesso è configurabile anche nel caso in cui non sussiste un nesso di strumentalità tra la condotta violenta o minacciosa e l’azione di danneggiamento, posto che la ragione della incriminazione deve essere ravvisata nella maggiore pericolosità manifestata dall’agente nella esecuzione del reato.

La Corte territoriale ha correttamente valutato che il danneggiamento dei telefonini era avvenuto in un medesimo contesto in cui la condotta violenta dell’imputato si era diretta prima verso la donna (con schiaffi e pugni al volto e con calci alle gambe) e, poi, alle cose.

Sussiste, pertanto, l’elemento materiale consistito nel comportamento intimidatorio, evidenziando che la condotta dell’imputato si è sostanziata nella minaccia, anche di morte, rivolta alla persona offesa se avesse interrotto la relazione con l’imputato, nonché fino all’aggressione fisica, diretta a costringere la donna in casa.

Il ricorso viene respinto e l’uomo viene condannato al pagamento delle spese di lite.

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