Il delitto di violenza privata si configura quando un soggetto, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa, ed è disciplinato dall’art. 610 c.p.

La pena prevista è la reclusione fino a quattro anni, aumentata se concorrono le circostanze aggravanti di cui all’art. 339 c.p., se la violenza o la minaccia sono commesse con armi, da persone travisate, da più persone riunite, con scritto anonimo, in modo simbolico o valendosi della forza intimidatrice derivante da associazioni segrete, esistenti o supposte.

La ratio della norma è quella di garantire a ogni individuo la libertà morale, ossia la facoltà di autodeterminarsi spontaneamente, secondo autonomi processi motivazionali.

Se da un lato, infatti, l’ordinamento giuridico impone a ciascuno limitazioni e condizionamenti motivati dalle superiori esigenze della vita comunitaria, dall’altro deve garantire a ciascuno di essere libero e di sentirsi libero.

Il bene giuridico protetto è la libertà psichica della persona da qualsiasi comportamento violento e intimidatorio in grado di esercitare una coartazione, sia diretta che indiretta, sulla sua libertà di volere o di agire, in modo da costringerla a una certa azione, omissione o tolleranza.

La violenza privata è un reato comune e, ai fini della commissione, non richiede che l’agente abbia una particolare qualifica, o rivesta uno specifico status.

La condotta illecita può essere rivolta non solo nei confronti di una persona determinata, ma anche nei riguardi di persone sconosciute, contro le quali venga diretta l’azione violenta o minatoria (si pensi ai casi di lancio di sassi dal cavalcavia -Cass. n. 1628/1995).

Ciò detto, la violenza privata è considerata un reato sussidiario, nel senso che ” è ravvisabile ogni qualvolta non si configuri, per quel determinato fatto, una diversa qualificazione giuridica” (Cass. n. 4996/1998; Cass. n. 2664/1986), nonché un reato complesso, vale a dire che il suo elemento costitutivo deve essere una condotta che isolatamente considerata costituirebbe l’elemento materiale di un altro reato.

Il soggetto agente può utilizzare, alternativamente o in modo congiunto, gli elementi materiali della violenza e della minaccia per raggiungere il suo scopo di coartare la vittima.

Quando nello stesso contesto, vengono poste in essere condotte violente o minacciose, entrambe finalizzate ad imporre alla vittima un’azione o una sofferenza, il reato è da considerarsi integrato se l’agente raggiunge il suo scopo, altrimenti è configurabile il tentativo.

Difatti, la condotta è a forma vincolata e consiste nelle violenze o nelle minacce che hanno l’effetto di costringere altri a fare, tollerare o omettere una determinata cosa.

L’elemento della violenza viene identificato “in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l’offeso della libertà di determinazione e di azione, potendo anche consistere in una violenza impropria che si attua attraverso l’uso di mezzi anomali diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui, impedendone la libera determinazione” (Cass. n. 11907/2010).

Ai fini della configurabilità del delitto di violenza privata è necessaria la forma di una qualsiasi energia fisica esercitata su una cosa idonea ad incidere sulla libertà psichica della vittima.

L’elemento soggettivo del reato è il dolo generico, ossia la coscienza e la volontà di costringere taluno, tramite violenza o minaccia, a fare, tollerare o omettere qualcosa.

Ai fini della configurazione del reato, che è procedibile d’ufficio, non è necessario il concorso di un fine particolare, né che la condotta del reo sia volta al conseguimento di un fine illecito, essendo irrilevante che l’agente sia mosso da eventuale fine di scherzo.

Avv. Emanuela Foligno

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