Violenza sessuale: nessuna attenuante al collaboratore di giustizia

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violenza sessuale

Qualora la violenza sessuale miri a realizzare il soddisfacimento della concupiscenza dell’autore e, in quanto tale, risulti completamente scollegata da fatti relativi a fenomeni mafiosi, non può trovare applicazione la circostanza attenuante della collaborazione con la giustizia

La vicenda

La Corte di appello di Catanzaro dichiarava il non doversi procedere nei confronti dell’imputato per i reati di cui agli artt. 56 e 629 c.p. perché estinti per prescrizione, rideterminando invece la pena per il reato di violenza sessuale commesso ai danni di alcune prostitute.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso l’imputato, lamentando l’illogicità della motivazione relativamente al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche che gli erano state negate sul presupposto della mancanza di elementi positivi in suo favore.

L’imputato era un collaboratore di giustizia, appartenente a un clan mafioso; nel corso del processo aveva ammesso gli addebiti, spiegando come le tentate estorsioni alle donne prostitute erano connotate da mafiosità, ma la Corte di appello aveva completamente ignorato tale circostanza.

Il giudizio di legittimità

La Terza Sezione Penale della Cassazione (sentenza n. 42103/2019) ha confermato la decisione impugnata che, in maniera logica e immune da vizi, aveva motivato sul mancato riconoscimento dell’attenuante in ragione del carattere continuativo delle violazioni e della loro particolare gravità.

Del resto – hanno aggiunto gli Ermellini – “la decisione sulla concessione o sul diniego delle attenuanti generiche è rimessa alla discrezionalità del giudice di merito che, nell’esercizio del relativo potere, agisce con insindacabile apprezzamento, sottratto al controllo di legittimità, a meno che non sia viziato da errori logico – giuridici”.

Nel caso in esame, le violenze sessuali erano dirette al soddisfacimento della concupiscenza del ricorrente e in fatto erano completamente scollegate da altri reati; il ricorrente, del resto, non aveva neppure evidenziato elementi concreti sulla effettività della collaborazione, essendosi limitato a prospettare unicamente l’ammissione del fatto di reato, non sufficiente comunque per il beneficio: ” L’applicazione della circostanza attenuante della collaborazione, prevista dal D.L. 13 maggio 1991, n. 152, art. 8, convertito nella L. 12 luglio 1991, n. 203, non può essere legata ad un mero atteggiamento di resipiscenza, ad una confessione delle proprie responsabilità o alla descrizione di circostanze di secondaria importanza, ma richiede una concreta e fattiva attività di collaborazione dell’imputato, volta ad evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori e a coadiuvare gli organi inquirenti nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e la cattura degli autori dei delitti” (Sez. 1, n. 52513 del 14/06/2018 – dep. 21/11/2018).

In definitiva, il ricorso è stato rigettato e affermato il seguente principio di diritto:

“Qualora la violenza sessuale miri a realizzare il soddisfacimento della concupiscenza dell’autore e, in quanto tale, risulti completamente scollegata da fatti relativi a fenomeni mafiosi ex art. 416 bis c.p., non può trovare applicazione la circostanza attenuante specifica di cui al D.L. 13 maggio 1991, n. 152, art. 8, convertito nella L. 12 luglio 1991, n. 203, anche perché l’attenuante non può essere legata ad un mero atteggiamento di resipiscenza, ad una confessione delle proprie responsabilità o alla descrizione di circostanze di secondaria importanza, ma richiede una concreta e fattiva attività di collaborazione dell’imputato, volta ad evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori e a coadiuvare gli organi inquirenti nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e la cattura degli autori dei delitti”.

La redazione giuridica

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