Ambiente lavorativo logorante e danno alla salute

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Il Medico, dipendente di un’Azienda Ospedaliera, lamenta il trattamento ricevuto dal Primario nel presidio ospedaliero in cui era dirigente che era di conseguenza diventato un ambiente lavorativo logorante.

La Corte di Appello non ha valutato le varie condotte poste in essere dall’Azienda datrice di lavoro che ben possono essere state, anche in ragione della reiterazione delle stesse, esorbitanti od incongrue rispetto all’ordinaria gestione del rapporto. Inoltre così poste in violazione dell’art. 2087 c.c. anche sotto il profilo della contribuzione causale alla creazione di un ambiente logorante e determinativo di ansia, come tali causative di pregiudizi per la salute (Cassazione civile, sez. lav., 21 febbraio 2024, n. 4664).

La vicenda

Con sentenza n. 213 del 2018, la Corte d’Appello di Ancona accoglieva il gravame proposto dall’Azienda Sanitaria e, in riforma della sentenza di primo grado, rigettava la domanda di risarcimento del danno in conseguenza di comportamenti persecutori, vessatori e discriminatori posti in essere ai suoi danni. Il danneggiato era dirigente medico presso l’Unità Operativa cardiologia (struttura complessa) dell’Ospedale, nonché responsabile dell’Unità per il Dolore Toracico denominata “Chest Pin Unit” (struttura semplice).

La Corte riteneva che i comportamenti lamentati, attribuiti al primario dell’Unità Operativa di Cardiologia, non potessero essere qualificati in termini di condotte mobbizzanti. Escludeva che l’aver adibito il Medico con una certa sistematicità ad attività da svolgere al di fuori del reparto di cardiologia avesse in sé una valenza vessatoria essendo piuttosto le relative determinazioni aziendali ascrivibili a scelte di massimizzazione dell’efficienza del reparto. Riteneva che l’accertato clima di conflittualità all’interno del reparto smentisse l’esistenza di un intento persecutorio. Riteneva che le patologie psico-somatiche lamentate dal Medico ed acclarate dalla CTU disposta in primo grado, non implicassero la dimostrazione della loro genesi ed anzi evidenziava che, alla luce degli esiti istruttori, si doveva ipotizzare che nel determinismo della malattia psico-somatica la componente soggettiva (eccessiva perturbabilità del ricorrente) avesse avuto un ruolo essenziale rispetto agli sviluppi della vicenda lavorativa ed al concreto atteggiarsi, nello specifico, delle relazioni professionali.

L’intervento della Cassazione

Il Medico impugna la sentenza d’Appello. Sostiene che la Corte territoriale abbia errato nel non ritenere sussistenti tutti i presupposti ai fini della configurabilità non solo di comportamenti di mobbing ai suoi danni (estromissione dal reparto e trasferimento ad altro presidio ospedaliero, impulso a pretestuose indagini penali), ma soprattutto nell’aver svalutato e relegato in ambito di ordinaria conflittualità lavorativa tra dipendenti l’insostenibile situazione determinatasi all’interno del reparto caratterizzata da diffusi contrasti e da comportamenti adottati ai suoi danni (estromissione dal reparto e trasferimento ad altro presidio ospedaliero, impulso a pretestuose indagini penali, contestazioni, dinieghi), e comunque per aver escluso la responsabilità dell’Azienda datrice di lavoro per tale clima conflittuale generativo di danno alla salute.

Censura anche l’omessa considerazione che era stata la stessa Azienda ad ammettere implicitamente l’insostenibilità della situazione conflittuale tra il ricorrente ed il primario a tal punto da proporre e poi disporre il trasferimento d’ufficio della vittima (e non anche di altri dirigenti medici) ad altro presidio ospedaliero e per non aver ricollegato tale situazione conflittuale ai danni alla salute ad esso ricorrente derivati.

Le censure sono fondate

La vicenda in relazione alla quale il Medico ha agito in giudizio era maturata in un contesto di lavoro caratterizzato da “diffuse ostilità” tra Medici del reparto e Primario, e che le stesse avevano interessato più della metà dei Medici dello stesso reparto “parrebbe a motivo di una certa contrarietà del primario all’espletamento da parte di costoro di attività intra moenia”. Pur a fronte di tale oggettiva situazione, la Corte di Ancona ha escluso la violazione dell’art. 2087 c.c. essenzialmente sottolineando la mancanza di un intento persecutorio tale da unificare i vari episodi dedotti a corredo della domanda e da integrare la responsabilità risarcitoria.

Tali considerazioni sono errate perché una situazione di costrittività ambientale e di ambiente lavorativo logorante è configurabile anche a prescindere dalla concreta individuazione di un mobbing e da una eventuale particolare sensibilità ovvero suscettibilità del dipendente.

La violazione dell’art. 2087 c.c.

Difatti, la S.C. rammenta che la violazione da parte del datore di lavoro dell’art. 2087 c.c. ha natura contrattuale e, dunque, il rimedio esperibile dal dipendente è quello della responsabilità contrattuale, con tutte le conseguenze del caso, soprattutto in tema di prescrizione e onere della prova. Il lavoratore che subisce l’inadempimento non deve dimostrare la colpa dell’altra parte, ma deve comunque allegare e dimostrare l’esistenza del fatto materiale ed anche le regole di condotta che assume essere state violate.

La giurisprudenza ha inteso l’obbligo datoriale di “tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro” nel senso di includere anche l’obbligo della adozione di ogni misura “atipica” diretta alla tutela della salute e sicurezza dei lavoratori, come, ad esempio, le misure di sicurezza da adottare in concreto nella organizzazione tecnico-operativa del lavoro allo scopo di prevenire ogni possibile evento dannoso, ivi comprese le aggressioni conseguenti all’attività criminosa di terzi.

La decisione di Appello è errata

La tutela dell’integrità psico-fisica del lavoratore non ammette sconti, in ragione di fattori quali l’ineluttabilità, la fatalità, la fattibilità economica e produttiva, nella predisposizione di condizioni ambientali sicure.” Questo implica anche l’obbligo del datore di lavoro di astenersi da iniziative, scelte o comportamenti che possano ledere la personalità morale del lavoratore, come l’adozione di condizioni di lavoro stressogene, o non rispettose dei principi ergonomici, oltre ovviamente a comportamenti più gravi come mobbing, straining, burn out, molestie, stalking e così via, alcuni anche di possibile rilevanza penale.

Tornando al caso concreto, la S.C. afferma che non è necessaria la presenza di un unificante comportamento vessatorio, ma è sufficiente l’adozione di comportamenti, anche colposi, che possano ledere la personalità morale del lavoratore, come l’adozione di condizioni di lavoro stressogene o non rispettose dei principi ergonomici. Ciò che è dirimente è che il fatto commesso, anche isolatamente, sia un fatto illecito, alla luce della norma relativa alla tutela delle condizioni di lavoro, da cui sia derivata la violazione di interessi protetti del lavoratore al più elevato livello dell’ordinamento, ovvero la sua integrità psicofisica, la dignità, l’identità personale, la partecipazione alla vita sociale.

Per tali ragioni la decisione di Appello è errata perché ha omesso di valutare/interpretare le varie condotte poste in essere dall’Azienda nei confronti del Medico poste in violazione dell’art. 2087 c.c.. anche sotto il profilo della contribuzione alla creazione di un ambiente lavorativo logorante e stressogeno nocivo per la salute.

Avv. Emanuela Foligno

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