Ammonta a circa 500 mila euro il risarcimento disposto dal Tribunale civile di Pescara a favore di una donna costretta a subire l’amputazione parziale del braccio dopo tre interventi chirurgici

Il Tribunale civile di Pescara ha condannato un ortopedico e la casa di cura presso cui prestava servizio a risarcire una donna che nel 2010 fu costretta a subire l’amputazione parziale del braccio. L’entità del ristoro ammonta a circa mezzo milione di euro.

La vicenda, riportata dal Messaggero, ha inizio alla fine del 2008 quando la signora, all’epoca 41enne, si rivolgeva allo specialista della clinica lamentando un forte dolore alla spalla e intensi formicolii alle dita delle mano. Al dottore faceva presente di essere in cura dal 2007 per un tumore del midollo osseo.

Il professionista le diagnosticava una sindrome del tunnel carpale alla mano e una metastasi da mieloma alla spalla, ritenendo necessario effettuare una “exeresi mielosa spalla destra”, ovvero un intervento volto all’estrazione della supposta massa tumorale e al contestuale riempimento in cemento.

Durante il trattamento post operatorio, tuttavia, in seguito ad un banale movimento dell’arto, alla donna veniva refertata una “frattura patologica del collo dell’omero destro per mieloma”.

In realtà l’esame istologico dei tessuti escludeva la presenza di massa tumorale, ma i risultati venivano comunicati alla paziente solo 5 giorni dopo il secondo intervento chirurgico, finalizzato all’inserimento di un placca in titanio e di 10 viti nella spalla, al fine di saldare la frattura.

Anche in questo caso, però, le condizioni della paziente non migliorarono e si rese necessaria una terza operazione, dopo poco più di anno, a causa del rigetto dei corpi estranei impiantati, che dovevano quindi essere rimossi.

Dopo l’asportazione, la paziente continuava ancora ad avvertire dolori e non riusciva a muovere l’arto. Una tac rivelava che, in realtà, due viti e del cemento erano rimasti nei tessuti. A questo punto la donna si rivolgeva ad un’altra struttura, questa volta a Bologna, dove le veniva spiegato che l’unico modo per salvare la situazione è l’amputazione parziale del braccio e l’installazione di una protesi in titanio.

Dopo l’ennesimo intervento, quindi, decideva di mettere il caso nelle mani di un legale per intentare una causa nei confronti della struttura del capoluogo abruzzese e del medico che l’aveva avuta in cura.

Il Giudice, a conclusione di una lunga battaglia giudiziaria ha ritenuto di riconoscere la responsabilità dell’ortopedico che – come riporta ancora il Messaggero – avrebbe agito con imperizia “sin dal primo accesso della donna nella struttura”.

Nello specifico, secondo le conclusioni del perito, il camice bianco non avrebbe inizialmente disposto l’effettuazione di una risonanza magnetica, che sarebbe stata “necessaria sia per la determinazione del quadro diagnostico sia per la scelta del trattamento”. Il professionista, inoltre, secondo l’ipotesi accusatoria, avrebbe sbagliato la diagnosi, nonché la scelta e la modalità di esecuzione dei tre interventi e delle relative terapie postoperatorie adottate. Infine avrebbe omesso “la comunicazione del risultato negativo dell’esame istologico del 24 ottobre 2009, determinando una grave lesione del diritto alla autodeterminazione della paziente”.

Sul fronte penale, invece, il medico era finito a giudizio ma era stato assolto nel 2017 per insussistenza del fatto. La pronuncia era stata poi riformata in appello ma a quel punto erano sopraggiunti i termini di prescrizione del reato.

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