L’amministratore di diversi stabili, era solito utilizzare il denaro presente sui conti correnti intestati ai diversi condomini come fosse cosa propria sia per coprire ammanchi di altri conti correnti sia per fini personali: condannato per appropriazione indebita
La vicenda
Un amministratore di condominio aveva proposto ricorso per Cassazione contro la sentenza di condanna pronunciata a suo carico dalla corte territoriale in ordine al reato di appropriazione indebita.
La Corte d’appello e prima ancora il Tribunale avevano ritenuto integrata la condotta appropriativa contestata all’imputato, “essendo stata raggiunta prova ragionevolmente certa del fatto che [egli] si fosse appropriato del denaro depositato sui conti correnti intestati ai condomini del quale aveva il possesso in qualità di mandatario e quale unico delegato ad operare su di essi. Tali somme erano gravate da un vincolo di destinazione, posto che l’imputato aveva l’obbligo di incassare i canoni con l’accordo di restituirli ogni tre mesi ai proprietari, dopo aver detratto a titolo di compensi professionali la percentuale del 3% annuo del monte locazioni e le spese documentate necessarie alla gestione. Era, poi, emerso e confermato dallo stesso imputato – che al momento della revoca del mandato, egli avesse omesso di corrispondere (e quindi si fosse appropriato) anche i canoni di locazione versati per il trimestre giugno – ottobre 2013, che a detta dello stesso amministratore erano stati utilizzati per il pagamento di un presunto e non documentato diritto di credito.
L’esame degli estratti conto aveva, inoltre evidenziato il compimento di prelievi e bonifici sprovvisti di giustificativo.
In particolare, era emerso il seguente modus operandi: l’amministratore era solito utilizzare il denaro presente sui conti correnti intestati ai diversi condomini come fosse cosa propria sia per coprire ammanchi di altri conti correnti sia per fini personali: tale condotta, per i giudici di merito, esorbitava sicuramente i limiti consentiti in qualità di mandatario, integrando la condotta appropriativa tipizzata all’art. 646 c.p.
D’altro canto, la giurisprudenza della Suprema Corte (Sez. 2, sentenza n. 293 del 04/12/2013) ha già chiarito che il reato di appropriazione indebita non viene meno quando l’imputato invochi di aver trattenuto le somme in contestazione a compensazione di propri preesistenti crediti, ove si tratti di crediti non certi, non liquidi e non esigibili.
La decisione
Inoltre, diversamente da quanto sostenuto dalla difesa, i fatti accertati non integravano il reato di cui all’art. 392 c.p.: è tradizionale, infatti, l’insegnamento per il quale non ricorre il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni nel caso in cui il soggetto che si sia appropriato di denaro o beni a preteso soddisfacimento di un credito abbia piena signoria sui predetti beni o denaro e abbia piena coscienza e volontà di farli propri, sussistendo in questo caso l’elemento psicologico del reato di cui all’art. 646 c.p., (appropriazione indebita) non potendo parlarsi di buona fede rispetto ad una azione esecutiva privatamente esercitata, e non ricorrendo conseguentemente alcuno dei casi che potrebbero giustificare l’esclusione del dolo (Sez. 2, sentenza n. 10282 del 29/04/1975).
Per queste ragioni, la Cassazione (Seconda Sezione Penale, sentenza n. 12618/2020) ha rigettato il ricorso e condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
La redazione giuridica
Leggi anche:
CONDOMINIO: SPETTA ALL’AMMINISTRATORE AGIRE CONTRO I VIZI DEGLI IMMOBILI