Lo strumento amministrativo previsto dall’art.8, comma 1, d.l. n. 11/2009, convertito con L.38/2009, ha come finalità proprio quella di evitare la degenerazione in condotte penalmente rilevanti nella cornice degli atti persecutori; cosicché il comportamento molesto o di semplice minaccia è già autonomamente suscettibile di tutela mediante ammonimento

L’accusa di atti persecutori: l’ammonimento del Questore

Il T.A.R. Lombardia aveva accolto il ricorso proposto da un uomo contro il decreto di ammonimento, emesso dal Questore di Milano, a lui indirizzato con il quale, ai sensi dell’art. 8, comma 1, d.l. 2009 n. 11 (convertito con legge n. 38/2009) quest’ultimo veniva invitato a tenere una condotta conforme alla legge, avvertendolo che, in caso di reiterazione degli atti persecutori censurati, la pena prevista per il delitto di cui all’art. 612 bis del c.p. sarebbe stata aumentata e si sarebbe proceduto d’ufficio; con lo stesso provvedimento era stato, inoltre, invitato a recarsi presso il CIPM “Centro Italiano per la Promozione della Mediazione”, per intraprendere il percorso trattamentale integrato, finalizzato all’acquisizione della consapevolezza del disvalore penale delle azioni commesse.

Il T.A.R. aveva evidenziato che “il provvedimento in contestazione, oltre a non motivare in ordine ai fatti che avrebbero fondato l’addotta esigenza di celerità, non era neppure fondato su comportamenti di contenuto inequivocabilmente aggressivo o violento nei confronti della vittima, tali da palesare l’esigenza di provvedere senza differimenti”, aggiungendo che “del resto, nel caso in esame l’istruttoria si era protratta per quasi un mese e, pertanto, non era dato capire perché in tale arco temporale l’amministrazione, che non aveva provveduto immediatamente dopo la ricezione della denuncia, non avesse sentito il ricorrente anche considerando che erano state sentite due persone, la madre e il marito della denunciante, in qualità di persone informate sui fatti”.

Quanto poi alla valenza non meramente formale della violazione, il T.A.R. aveva rilevato che “il provvedimento interveniva in un contesto caratterizzato da una lunga relazione extraconiugale tra le parti sicché, considerata l’ampia discrezionalità che connota il potere esercitato dal Questore, la necessità di garantire un’istruttoria adeguata rendeva doveroso sentire il ricorrente, il quale in giudizio aveva prodotto numerosi messaggi e comunicazioni intercorsi tra lui e la supposta vittima, che evidenziano una situazione diversa da quella considerata dall’amministrazione, in ordine sia alla durata della relazione, sia all’effettivo contenuto delle comunicazioni tra i due, sia ai contatti avuti con il marito della donna e con il titolare dello studio presso il quale quest’ultima prestava la propria attività professionale”.

Non risultava inoltre provato che (il ricorrente) si fosse reso responsabile di comportamenti a matrice violenta”.

L’inquadramento giuridico della fattispecie

Secondo l’art. 8 d.l. n. 11 febbraio 2009, convertito in legge n. 38 del 23 aprile 2009, “fino a quando non è proposta querela per il reato di cui all’articolo 612-bis del codice penale (atti persecutori), introdotto dall’articolo 7, la persona offesa può esporre i fatti all’autorità di pubblica sicurezza avanzando richiesta al questore di ammonimento nei confronti dell’autore della condotta. La richiesta è trasmessa senza ritardo al questore” (comma 1) e “il questore, assunte se necessario informazioni dagli organi investigativi e sentite le persone informate dei fatti, ove ritenga fondata l’istanza, ammonisce oralmente il soggetto nei cui confronti è stato richiesto il provvedimento, invitandolo a tenere una condotta conforme alla legge e redigendo processo verbale. Copia del processo verbale è rilasciata al richiedente l’ammonimento e al soggetto ammonito. Il questore adotta i provvedimenti in materia di armi e munizioni” (comma 2).

I commi successivi si preoccupano invece di raccordare la disciplina del potere de quo, avente connotazione preventivo-amministrativa, a quella penale, prevedendo che “si procede d’ufficio per il delitto previsto dall’articolo 612-bis del codice penale quando il fatto è commesso da soggetto ammonito ai sensi del presente articolo”.

Il richiamato art. 612 bis c.p. invece, nella formulazione vigente ratione temporis, prevedeva che “salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita” (la previsione è stata modificata dall’art. 9, comma 3, l. n. 69 del 19 luglio 2019 limitatamente all’aspetto sanzionatorio, essendo ora prevista la pena edittale da un anno a sei anni e sei mesi).

L’ammonimento del Questore

Come è agevole intuire, lo strumento dell’ammonimento è essenzialmente destinato a prevenire la recrudescenza dei fenomeni patologici talvolta caratterizzanti le relazioni umane, anche di impronta affettiva, laddove una delle parti assuma atteggiamenti di prevaricazione ed indebita ingerenza nella sfera morale dell’altra.

La finalità preventiva della misura è destinata ad operare sia sul piano dell’evoluzione delle vicende relazionali che hanno manifestato sintomi degenerativi, laddove l’autore delle condotte descritte si attenga all’ammonimento del questore, sia sul piano strettamente processuale, laddove la vittima, una volta conseguito l’effetto preventivo proprio dell’ammonimento da essa sollecitato, si astenga dal presentare la querela, costituente ordinariamente la condizione di procedibilità del reato di cui all’art. 612 bis c.p..

La correlazione tra la disciplina amministrativa e quella penale, insieme alla finalità preventiva della disposizione, nel duplice senso innanzi evidenziato, induce a ritenere che l’intervento del Questore non sia ancorato ai medesimi presupposti di quello penale, distinguendosene sia sul piano della ricognizione dei fatti atti a legittimarlo sia in relazione ai mezzi di prova utili al loro accertamento.

La discrezionalità dell’amministrazione

Dal primo punto di vista, infatti, esso è legittimato anche da condotte che, pur non possedendo gli stringenti requisiti di cui all’art. 612 bis c.p., si rivelino potenzialmente atti ad assumere, sulla base della loro concreta manifestazione fenomenica, connotati delittuosi; dal secondo punto di vista, invece, è rimessa alla discrezionalità dell’Amministrazione l’apprezzamento della fondatezza della richiesta, in relazione alla attendibilità dei fatti segnalati, e l’individuazione degli elementi di riscontro eventualmente necessari.

Tanto premesso, il Consiglio di Stato (Terza Sezione, sentenza n. 2545/2020)ha ritenuto che il provvedimento impugnato fosse coerente con il quadro istruttorio e sorretto da una adeguata quanto esaustiva motivazione; era pacifico, infatti, che il ricorrente “si [fosse] reso responsabile di atti riconducibili alla fattispecie di cui all’art. 612 bis c.p. (…) avendo con più condotte reiterate compiuto atti persecutori nei confronti della [vittima]; che “le manifestazioni vessatorie iniziate nel mese di maggio e tuttora in atto, si erano concretizzate con l’invio di numerosi messaggi, mail e telefonate, dal contenuto minaccioso contattando altresì la madre ed il marito della stessa, nonché in appostamenti presso l’abitazione della richiedente, il tutto per non essersi rassegnato alla fine della loro relazione extraconiugale terminata nel mese di maggio.” e che “tali comportamenti avessero ingenerato [nella donna] uno stato di paura e preoccupazione tale da costringere a modificare le proprie abitudini di vita essendo persino costretta ad utilizzare un taxi per gli spostamenti, nonché evitando di uscire per timore di incontrare [il suo persecutore].

La decisione

Nella fattispecie in esame, la reiterata manifestazione della volontà dell’ammonito di estendere la sfera di conoscenza della relazione extraconiugale rispetto ai suoi diretti protagonisti integrava, di per sé, una condotta minatoria, sia in virtù del discredito che, pur in un contesto laicizzato e relativistico come quello contemporaneo, la violazione del dovere di fedeltà coniugale porta inevitabilmente con sé, sia, e forse soprattutto, in ragione della maggiore difficoltà di superamento della frattura coniugale laddove essa sia portata a conoscenza del coniuge da soggetti estranei e secondo modalità non appropriate.

Ad ogni buon conto, il Consiglio di Stato ha evidenziato che la norma in esame attribuisce rilevanza anche ai “semplici” atti di molestia, proprio come le ripetute incursioni attuate dal ricorrente nei confronti della sua ex compagna e della sua vita privata, pur dopo la definitiva ed indiscussa interruzione della relazione da essi intrattenuta; “incursioni” che avevano senza dubbio alterato lo stato psichico della donna, nonché le sue abitudini di vita, tutti elementi caratterizzanti il reato di atti persecutori.

Per queste ragioni, è stata respinta la domanda di annullamento del provvedimento del Questore, proposta in primo grado.

Avv. Sabrina Caporale

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