Il caso riguarda un sinistro stradale che vede coinvolto un autotreno con rimorchio che, nell’affrontare una curva, travolge un ragazzino in bicicletta causandogli serie lesioni fisiche.
La vicenda
Il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere condanna il conducente e proprietario dell’autotreno e l’assicurazione a pagare al ciclista la somma di 33.882,785 euro e ai genitori la somma di 7.000 euro ciascuno.
Successivamente, invece, i Giudici di appello applicano il concorso di colpa per entrambi i conducenti coinvolti, in misura uguale per l’impossibilità di accertare la misura dell’incidenza causale dell’uno, o dell’altro, nella produzione del sinistro. La Corte d’Appello riforma anche la decisione sul danno parentale ritenendo l’insussistenza dei presupposti per la sua liquidazione.
Il ricorso in Cassazione
Viene invocato l’intervento della Corte di Cassazione sulla presunzione di corresponsabilità applicata e sul mancato riconoscimento del danno parentale.
Sulla prima censura, i Giudici di secondo grado hanno accertato che l’urto è avvenuto all’altezza della parte posteriore destra del rimorchio, hanno poi preso atto della incertezza sull’effettiva dinamica degli eventi, non potendo ritenersi decisivo quanto ricostruito dai Carabinieri sulla dinamica del sinistro. Per queste ragioni, correttamente, è stata applicata la presunzione di pari responsabilità.
La sentenza è conforme al più che consolidato indirizzo secondo cui la presunzione di pari responsabilità stabilita dall’art. 2054, comma 2, c.c., per il caso di scontro di veicoli, ricorre non solo nei casi in cui sia certo l’atto che ha causato il sinistro ma sia incerto il grado di colpa attribuibile ai diversi conducenti, ma anche quando non sia possibile accertare il comportamento specifico che ha causato il danno, con la conseguenza che, in tutti i casi in cui sia ignoto l’atto generatore del sinistro, causa presunta dell’evento devono ritenersi in eguale misura i comportamenti di entrambi i conducenti coinvolti nello scontro, anche se solo uno di essi abbia riportato danni.
Il mancato riconoscimento del danno parentale
Venendo invece alla interessante questione del mancato riconoscimento del danno parentale, i ricorrenti censurano la sentenza nella parte in cui ha negato la sussistenza dei presupposti per il risarcimento del danno parentale affermando che “il medesimo avrebbe dovuto essere liquidato in via equitativa corrispondendo al danno patito dai genitori a causa delle lesioni riportate dal figlio in seguito a fatto illecito altrui”. Ad avviso dei ricorrenti il rapporto di stretta parentela tra la cd. vittima primaria e le cd. vittime secondarie (ovvero i congiunti) avrebbe dovuto far presumere, in base all’id quod plerumque accidit che i genitori e i fratelli abbiano sofferto per le lesioni riportate dai loro congiunti senza che ciò debba necessariamente tradursi in uno sconvolgimento delle abitudini di vita.
La doglianza parte dalla non condivisibile premessa secondo cui la perdita o alterazione del danno parentale consiste non già nella mera perdita delle abitudini e dei riti propri della quotidianità, bensì nello sconvolgimento dell’esistenza rivelato da fondamentali e radicali cambiamenti dello stile di vita, senza che sia necessario che questo assurga a un radicale sconvolgimento delle abitudini di vita del danneggiato, profilo quest’ultimo che – al cospetto di una prova circostanziata da parte dell’attore – può incidere sulla personalizzazione del risarcimento.
La censura è inammissibile
La ragione del decidere è espressa dalla seguente motivazione: “Nella vicenda in esame, la natura delle lesioni patite dal ragazzo – fratture della branca ileo-pubica ed ischio pubica – e la non grave entità delle conseguenze che ne sono derivate – invalidità temporanea per 135 giorni e permanente del 9% – insieme alla genericità delle allegazioni di parte – limitate al turbamento interiore ed al pregiudizio alla serenità familiare –, impediscono di ritenere conseguita la prova della sussistenza di un reale danno, non altrimenti provato né presumibile in ragione del solo rapporto di convivenza, dell’età della vittima primaria e della sua qualità di figlio unico, elementi neutri rispetto alla necessaria dimostrazione dell’alterazione delle consuetudini di vita delle pretese vittime secondarie.
In definitiva, i ricorrenti non criticano la ratio decidendi, ergo la censura è inammissibile (Corte di Cassazione, III civile, 6 marzo 2024, n. 6051).
Avv. Emanuela Foligno