Non è possibile riconoscere la bimba nata in Italia ma concepita all’estero da due donne mediante tecniche di procreazione assistita

La richiesta di riconsocimento della bimba concepita mediante PMA

La Corte d’appello di Venezia aveva rigettato il reclamo proposto da due donne, entrambe cittadine italiane e conviventi, contro il decreto del Tribunale di Treviso che, dopo il rifiuto opposto dall’ufficiale di stato civile, aveva rigettato la loro richiesta di ricevere la dichiarazione congiunta di riconoscimento della loro bimba concepita mediante fecondazione assistita praticata all’estero e nata in Italia (a Treviso) nel 2017.

Per i giudici della corte territoriale la decisione dell’ufficiale di stato civile era corretta, non avendo quest’ultimo il potere di inserire in un atto dello stato civile dichiarazioni e indicazioni diverse da quelle consentite dalla legge (art. 11, comma 3) –come quella relativa alla presunta filiazione tra la bimba e la seconda madre, ostandovi il d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 che vieta di manipolare o integrare gli atti dello stato civile.

Da quanto accertato, una delle due donne era madre biologica della piccola (che l’aveva partorito) e della quale aveva la responsabilità genitoriale, l’altra aveva dichiarato di essere genitrice intenzionale per avere dato il consenso alla tecnica della procreazione medicalmente assistita cui la prima si era sottoposta.

Ebbene, la vicenda è giunta in Cassazione dopo il ricorso presentato da entrambe contro la decisione di secondo grado.

Ma i giudici della Suprema Corte (sentenza n. 7668/2020) hanno rigettato l’istanza ritendo che la corte territoriale avesse fatto corretta applicazione del divieto per le coppie formate da persone “dello stesso sesso” di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (PMA), cui possono accedere solo le “coppie maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi” (art. 5 della legge n. 40 del 2004), rafforzato dalla previsione di sanzioni amministrative a carico di chi le applica a coppie “composte da soggetti dello stesso sesso” (art. 12, comma 2).

Tale divieto – confermato anche da altre disposizioni (d.P.R. n. 396/2000, art. 30, comma 1; d.P.R. 17 luglio 2015, art. 1, comma 1 lett. c), che implicitamente ma chiaramente postulano che una sola persona ha diritto di essere menzionata come madre nell’atto di nascita, in virtù di un rapporto di filiazione che presuppone il legame biologico e/o genetico con il nato – è attualmente vigente all’interno dell’ordinamento italiano e, dunque, attualmente applicabile agli atti di nascita formati o da formare in Italia, a prescindere dal luogo dove sia avvenuta la pratica fecondativa.

Le ragioni del divieto

La validità di tali conclusioni – hanno aggiunto gli Ermellini – non è inficiata dai recenti orientamenti della giurisprudenza di legittimità – richiamati dalle stesse ricorrenti – sui temi dell’adozione di minori da parte di coppie omosessuali e il riconoscimento in Italia di atti formati all’estero, dichiarativi del rapporto di filiazione in confronto a genitori dello stesso sesso.

E infatti, come rilevato dalla corte costituzionale, “vi è una differenza essenziale tra l’adozione e la PMA. L’adozione presuppone l’esistenza in vita dell’adottando: essa non serve per dare un figlio a una coppia, ma precipuamente per dare una famiglia al minore che ne è privo. Nel caso dell’adozione, dunque, il minore è già nato ed emerge, come specialmente meritevole di tutela (…), l’interesse di quest’ultimo a mantenere relazioni affettive già di fatto instaurate e consolidate. La PMA, di contro, serve a dare un figlio non ancora venuto ad esistenza a una coppia (o a un singolo), realizzandone le aspirazioni genitoriali. Il bambino, quindi, deve ancora nascere: non è, perciò, irragionevole (…) che il legislatore si preoccupi di garantirgli quello che, secondo la sua valutazione e alla luce degli apprezzamenti correnti nella comunità sociale, appaiono, in astratto, come le migliori condizioni “di partenza”. Per altro verso, “il solo fatto che un divieto possa essere eluso recandosi all’estero non può costituire una valida ragione per dubitare della sua conformità a Costituzione” (Corte cost. n. 221/2019).

La possibilità di ottenere il riconoscimento in Italia di atti stranieri dichiarativi del rapporto di filiazione da due donne si giustifica in virtù del fatto che diverso è il parametro normativo applicabile.

A venire in rilievo, in tal caso, è il principio di ordine pubblico (legge 31 maggio 1995, n. 218, artt. 16 e 64, comma 1, lett. a) con il quale si è ritenuto non contrastare il divieto normativamente imposto in Italia alle coppie formate da persone “di sesso diverso” di accedere alle PMA, in relazione ad atti validamente formati all’estero per i quali è impellente la tutela del diritto alla continuità (conservazione) dello “status filiationis” acquisito all’estero, unitamente al valore della circolazione degli atti giuridici, quale manifestazione dell’apertura dell’ordinamento alle istanze internazionalistiche, delle quali può dirsi espressione anche il sistema del diritto internazionale privato, alla luce dell’art. 117, comma 1, Cost.

E ciò diversamente dalle coppie omosessuali maschili, per le quali la genitorialità artificiale passa necessariamente attraverso la pratica distinta della maternità surrogata (o gestazione per altri), che è vietata da una disposizione (l’art. 12, comma 6, della l. n. 40 del 2004) che si è ritenuta espressiva di un principio di ordine pubblico, a tutela dei valori fondamentali, quali la dignità della gestante e l’istituto dell’adozione, non irragionevolmente ritenuti dal legislatore prevalenti sull’interesse del minore, salva la possibilità di conferire comunque rilievo al rapporto genitoriale, mediante il ricorso ad altri strumenti giuridici, quali l’adozione (Cass. Sez. Un. n. 12193/2019).

La decisione

Per queste ragioni, la Cassazione ha ritenuto non pertinente il riferimento, alla nozione ristretta di ordine pubblico, sulla quale le ricorrenti avevano insistito, essendo l’atto di nascita che chiedevano di rettificare formato in Italia (dove la bimba concepita all’estero era nata) e non rilevando che la pratica fecondativa medicalmente assistita fosse avvenuta in altro Paese.

Il ricorso è stato pertanto rigettato.

Avv. Sabrina Caporale

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