La struttura sanitaria non è responsabile se le complicanze subite dal paziente dopo un intervento di correzione di cataratta erano imprevedibili e inevitabili

La vicenda

Con atto di citazione un uomo aveva convenuto dinanzi al Tribunale di Milano una clinica chiedendone la condanna al risarcimento di tutti i danni patiti in seguito agli interventi chirurgici di correzione di cataratta ivi eseguiti.

Nel corso di detti interventi gli furono applicate due lenti che gli avevano determinato un calo del visus a causa di una alterazione della trasparenza delle stesse che aveva generato un fenomeno detto “glistenings”. Tale anomalia aveva determinato nell’attore non solo una alterazione del visus ma anche una serie di effetti collaterali gravemente invalidanti quali bruciore congiuntivale e un particolare stato d’ansia con deflessione del tono dell’umore.

L’uomo aveva, quindi contestato la responsabilità della casa di cura per inadempimento alla prestazione sanitaria, per aver, nella specie, utilizzato lenti difettose che gli avevano provocato un danno alla vista, in forma peraltro irreversibile nonchè la responsabilità del produttore/fornitore delle suddette lenti, ai sensi dell’art. 117 comma 1 codice del consumo.

La responabilità da prodotto difettoso

In materia di responsabilità da prodotto difettoso, la Corte di Cassazione ha già chiarito che la responsabilità prescinde dall’accertamento della colpevolezza del produttore gravando sul danneggiato la prova del collegamento causale tra difetto e danno, non già tra prodotto e danno: “solo a seguito del raggiungimento di tale prova (avente pertanto ad oggetto la relazione difetto-danno quale prerequisito normativo costituente al contempo limite e fondamento della responsabilità del produttore), viene a gravare sul produttore la dimostrazione della causa liberatoria” (Cfr. Cass. Civ. n. 13225/2015).

In altre parole, il danno riportato non prova di per sé, né direttamente né indirettamente, il difetto né la pericolosità del prodotto in condizioni normali di impiego, ma solo una generica pericolosità del prodotto, di per sé insufficiente per accertare la responsabilità del produttore, se non sia anche accertato in concreto che quella specifica condizione di insicurezza del prodotto sia di sotto del livello di garanzia di affidabilità richiesto dalla utenza o dalle leggi in materia.

In altre parole, il prodotto deve essere accertato e valutato con precisione tecnica al fine di procedere nella verifica della sua difettosità.

Ebbene, nel caso in esame, l’esito dell’accertamento peritale, pienamente condiviso dal Tribunale di Milano (Sezione Prima, n. 723/2020), ha consentito di escludere in modo netto che le due lenti applicate al paziente fossero qualificabili come “prodotto difettoso”.

La qualifica di un prodotto come difettoso, infatti, richiede, a mente dell’art. 117 d. lgs 206/2005, che il prodotto non offra la sicurezza che ci si può legittimamente attendere tenuto conto di tutte le circostanze, tra cui: a) il modo in cui il prodotto è stato messo in circolazione, la sua presentazione, le sue caratteristiche palesi, le istruzioni e le avvertenze fornite; b) l’uso al quale il prodotto può essere ragionevolmente destinato e i comportamenti che, in relazione ad esso, si possono ragionevolmente prevedere; c) il tempo in cui il prodotto è stato messo in circolazione.

Ebbene, nella vicenda esaminata, l’accertamento svolto dettagliatamente dai consulenti ha consentito al Tribunale di Milano di affermare che nessuna delle convenute potesse essere considerata colposamente responsabile per avere prodotto, messo in circolazione ed utilizzato quelle lenti in quanto la conseguenza dannosa poi verificatasi nel ricorrente non era prevedibile né evitabile utilizzando maggiore prudenza.

Parimenti, è stata rigettata la domanda attorea con riferimento alla pretesa violazione del consenso informato sulle possibili conseguenze all’intervento di cataratta.

Come è noto, il consenso informato costituisce, di norma, legittimazione e fondamento del trattamento sanitario. Senza il consenso informato l’intervento del medico è – al di fuori dei casi di trattamento sanitario per legge obbligatorio o in cui ricorra uno stato di necessità – sicuramente illecito, anche quando sia nell’interesse del paziente.

Si è detta a tal proposito, che la responsabilità del sanitario per violazione dell’obbligo del consenso informato discende a) dalla condotta omissiva tenuta in relazione all’adempimento dell’obbligo di informazione in ordine alle prevedibili conseguenze del trattamento cui il paziente sia sottoposto b) dal verificarsi – in conseguenza dell’esecuzione del trattamento stesso, e, quindi, in forza di un nesso di causalità con essa – di un aggravamento delle condizioni di salute del paziente.

Non assume, invece, alcuna influenza, ai fini della sussistenza dell’illecito per violazione del consenso informato, che il trattamento sia stato eseguito correttamente o meno.

Il medico dunque è tenuto, in via generale, ad informare il paziente dei benefici, delle modalità di intervento, dell’eventuale scelta tra tecniche diverse, dei rischi prevedibili; e ciò in quanto le conseguenze dannose che possono discendere dalla violazione dell’obbligo informativo possono ledere due distinti tipi di diritti; il diritto alla salute ed il diritto alla autodeterminazione.

In entrambi i casi è onere del danneggiato allegare quale tipo di danno egli abbia patito. Perciò, nel caso in esame, era onere del paziente dimostrare che, se correttamente informato, non si sarebbe sottoposto all’intervento di cataratta.

Tutto ciò premesso, nel corso del giudizio la struttura sanitaria convenuta aveva provato di avere informato il paziente delle possibili complicanze dell’intervento di cataratta, com’era stato possibile accertare dalla lettura dell’articolato modulo di consenso informato sottoscritto dall’attore per entrambi gli interventi.

I due moduli, pur dettagliati con riguardo alle possibili complicanze intra e post operatorie, non prevedevano espressamente il fenomeno del glisterings che pure era uno dei fenomeni noti nel 2010; tuttavia, il ricorrente non aveva provato (a parte una generica allegazione) la violazione del suo diritto alla autodeterminazione. Per queste ragioni, la sua domanda è stata rigettata.

Avv. Sabrina Caporale

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