Tribunale di Prato e Corte di Firenze accertano la responsabilità dell’ASL per le conseguenze pregiudizievoli da un’inappropriata protesi all’anca che provocava contaminazione di cromo e cobalto. Anche la Cassazione conferma (Corte di Cassazione, III civile, 17 ottobre 2024, n. 26976).
I fatti
La paziente il 28/1/2010 si sottoponeva a intervento di impianto protesico all’anca. Deduce che da tale intervento derivavano conseguenze pregiudizievoli. In primo luogo per la scelta dei sanitari di impiantare una protesi Depuy della tipologia metallo-metallo, sebbene fossero disponibili sul mercato tipologie di protesi metallo-polietilene o metallo-ceramica o ceramica-ceramica, che, al contrario della prima, non erano foriere di effetti collaterali, nonché. In secondo luogo, dal ritardo con cui gli stessi sanitari avevano provveduto, nel gennaio 2013, alla sua rimozione, sebbene già dai risultati delle analisi eseguite il 10 febbraio 2012 (dunque, circa 11 mesi prima) vi era la consapevolezza che la protesi all’anca impiantata nel 2010 aveva causato una rilevante contaminazione di cromo e cobalto nei valori ematici della paziente.
La vicenda giudiziaria
La Corte di appello di Firenze, sulla base della CTU, ha accertato l’inadempimento dell’ASL per aver utilizzato, tra quelli disponibili sul mercato, l’impianto protesico meno sicuro e di cui era presumibilmente nota la pericolosità, atteso che già nel mese di marzo 2010 (dunque, in epoca prossima all’intervento, eseguito nel gennaio precedente) era stato diramato un primo avviso di sicurezza in tal senso, seguito dalla pubblicazione del Protocollo dell’Agenzia Regolatoria dei Farmaci e dei Prodotti Sanitari circa la necessità che i portatori di protesi rientranti nella tipologia metallo-metallo si sottoponessero a controllo.
Inoltre, ha accertato che l’ASL aveva provveduto con ritardo sia a comunicare alla paziente la necessità di effettuare analisi per verificare i valori di cobalto e di cromo nel sangue (comunicazione avvenuta nel febbraio 2012), sia a provvedere alla sostituzione della protesi all’anca dopo che le suddette analisi avevano riscontrato la presenza di tali elementi chimici in misura ampiamente superiore alla media (sostituzione avvenuta solo nel gennaio 2013).
Infine, la Corte d’appello ha accertato che, al momento della sostituzione della protesi all’anca, la donna presentava, come risultava dallo stesso referto della ASL, “pseudo tumore con abbondante liquido articolare ante late e posteriore al troncantere con distruzione dei tessuti molli e scomparsa del tendine del medio gluteo anteriormente”. Ovverosia una situazione fisica ampiamente degenerata, evidentemente causata dalla detta contaminazione di metalli dannosi, a sua volta riconducibile all’accertato inadempimento dell’azienda sanitaria.
Per tali ragioni, il secondo grado ha confermato la sentenza di primo grado che aveva liquidato all’attrice la somma di 76.653,88 euro a titolo di danno non patrimoniale e la somma di 1.220 euro a titolo di danno patrimoniale, oltre accessori.
Il ricorso in Cassazione
La ASL impugna la decisione e ricorre in Cassazione che respinge in toto. La ricorrente deduce numerosi vizi: dal vizio di motivazione costituzionalmente rilevante, all’error in procedendo per violazione del principio di libera valutazione delle prove, all’omesso esame della CTU e alla violazione o falsa applicazione di legge, erronea valutazione delle risultanze della CTU.
Secondo l’ASL, i Giudici di appello avrebbero tratto dalla relazione peritale il giudizio sull’inadempimento imputabile della azienda sanitaria, laddove, al contrario, le risultanze della CTU sarebbero state piuttosto nel senso di dare atto del suo esatto adempimento, per essere stato evidenziato:
- che “la condotta dei sanitari dal punto di vista squisitamente chirurgico appariva corretta ed esente da vizi”.
- Che “tutti gli avvisi di sicurezza (esteri ed italiani) [erano] stati diramati qualche mese dopo l’intervento … (da marzo ad agosto 2010)”.
- Che la protesi all’anca impiantata alla donna era normalmente in commercio all’epoca dell’intervento (gennaio 2010) per esserne stata sospesa la commercializzazione solo nell’agosto successivo, con un avviso cui era seguita, nel mese di novembre 2011, la raccomandazione del Ministero della Salute in ordine alla promozione del follow-up dei pazienti.
- Che tale follow up nel caso della signora risultava eseguito in ottemperanza alle indicazioni ministeriali e regionali sulla sorveglianza degli impianti.
L’intervento della Suprema Corte
La Cassazione ritiene le censure ai limiti della pretestuosità. La Corte di Firenze ha fondato il giudizio di responsabilità dell’ASL non sull’accertata imperizia tecnica dei sanitari che avevano effettuato l’intervento chirurgico di impianto della protesi all’anca, né sulla accertata inosservanza, in sede di esecuzione del follow up, delle indicazioni ministeriali e regionali sulla sorveglianza degli impianti, bensì sulla decisione di utilizzare, tra le diverse tipologie di impianti protesici in commercio, quello di cui doveva presumersi già nota la minor sicurezza e la maggior pericolosità in ordine alle possibili conseguenze indesiderate, nonché per il ritardo con cui si era proceduto a comunicare alla paziente la necessità di sottoporsi al controllo e l’ulteriore ritardo con cui era stata effettuata la rimozione della protesi, pur dopo avere acquisito la consapevolezza della contaminazione del sangue della paziente con elementi chimici tossici sprigionatisi dalla stessa.
La censura, pertanto, considerata nella sua vera sostanza, è doppiamente inammissibile, sia perché non si confronta con le reali rationes del giudizio di fatto, sia perché omette di considerare che esso è riservato al Giudice del merito e, allorché – come nella specie – risulti debitamente motivato, resta insindacabile.
Inoltre, l’ASL sostiene che i Giudici di appello avrebbero “errato nella qualificazione giuridica della fattispecie”. Anche questo argomentare viene considerato pretestuoso per un inesistente travisamento delle risultanze peritali.
In definitiva, il ricorso proposto dall’ASL viene dichiarato inammissibile.
Avv. Emanuela Foligno