La danneggiata censura in Cassazione la mancata ammissione di CTU Medico-Legale per l’accertamento del danno biologico di natura psichica (Cassazione Civile, sez. III, sentenza n. 7426 depositata il 17/03/2021)
La Corte d’Appello di Milano, rigettava il gravame avverso la sentenza di prime cure del Tribunale di Milano e confermava il rigetto della domanda risarcitoria del danno biologico di natura psichica contro la società Il Sole 24-Ore S.p.a., nella parte in cui mirava ad ottenere il ristoro anche del danno biologico conseguente alla lesione dei diritti alla reputazione e all’identità personale.
La vertenza insorgeva in quanto la convenuta pubblicava (attraverso un link di collegamento) nelle proprie pagine web la sentenza di separazione (cui la ricorrente era parte in qualità di coniuge), senza oscurare i dati personali.
Il Tribunale di Milano riteneva la pubblicazione lesiva e condannava la Società editrice al pagamento dell’importo di euro 15.000,00, senza l’esperimento della fase istruttoria e della CTU Medico-legale invocata dall’attrice.
La donna ricorre in Cassazione con tre motivi di impugnazione.
Viene censurata la mancata ammissione di CTU Medico-Legale che in realtà avrebbe confermato il danno psichico patito dalla donna.
Secondo la Corte territoriale, la CTP prodotta dall’appellante (diagnosticante, a suo carico, un “Disturbo dell’adattamento con ansia ed umore depresso misti, cronico”), essendo stata redatta a tre anni di distanza dall’evento lesivo non permette di affermare con certezza la sussistenza del nesso di causalità fra l’illecito accertato e la patologia psichica invocata”.
La donna censura la decisione d’appello adducendo la non esclusione del nesso di causalità tra il danno e l’illecito, bensì la possibilità di accertarlo mediante idonea CTU del tutto esplorativa.
Con il secondo motivo la donna censura l’omesso esame di in fatto decisivo, e con il terzo motivo censura l’esclusione in capo all’editore della sanzione stabilita dalla legge.
Gli Ermellini non ritengono il ricorso fondato.
Per quanto qui di interesse, in punto di censure sulla CTU, il Collegio rileva che la stessa “è mezzo istruttorio diverso dalla prova vera e propria, sottratto alla disponibilità delle parti e affidato al prudente apprezzamento del giudice di merito, rientrando nel suo potere discrezionale la valutazione di disporre la nomina dell’ausiliario e potendo la motivazione dell’eventuale diniego del giudice di ammissione del mezzo essere anche implicitamente desumibile dal contesto generale delle argomentazioni svolte e dalla valutazione del quadro probatorio unitariamente considerato” .
Tuttavia, in tema di risarcimento del danno, è possibile assegnare alla CTU una funzione percipiente, quando vi siano elementi già allegati dalla parte ma che solo un Tecnico/Specialista sia in grado di accertare.
Ragionando in tal senso si può ipotizzare, in caso di diniego della CTU, un vizio di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, “quando venga preclusa alla parte la possibilità di assolvere l’onere probatorio su lei gravante, sulla base di motivazioni apparenti o perplesse”.
Il Collegio, tenuto a verificare se il diniego della CTU posto in essere dal Giudice di merito risponda al minimo costituzionale, esclude la ricorrenza di una motivazione apparente.
La Corte territoriale, ha escluso la necessità della CTU sul rilievo che la perizia di parte, “in quanto redatta a tre anni di distanza dalla pubblicazione dell’articolo, non permette di affermare con certezza la sussistenza del nesso di causalità fra l’illecito accertato e la patologia”, e che “pressochè impossibile stabilire se la compromissione – sebbene in misura lieve – delle condizioni di salute fosse dovute alla pubblicazione dell’articolo o piuttosto alle dolorose vicende connesse alla separazione dal coniuge e al divorzio oggetto del lungo iter giudiziario”.
Ebbene, non si ravvisano profili di irriducibile contraddittorietà.
La Corte, infatti, non ha riconosciuto l’esistenza, ancorchè “in misura lieve”, della compromissione della salute psichica.
La sentenza impugnata, invero, fa riferimento a quella evenienza come mera ipotesi formulata proprio dal perito di parte, per affermare, in sostanza, che, anche ad ammettere (in astratto), sulla scorta di tale documento, l’esistenza di una “lieve compromissione”, essa risulterebbe più verosimilmente ascrivibile alle vicende relative alla separazione personale (e poi al divorzio) della donna dal proprio coniuge, piuttosto che alla pubblicazione dell’articolo di giornale.
Quanto, invece, all’affermazione – quale ulteriore elemento idoneo ad escludere il nesso causale tra la condotta addebita alla società editrice e il danno patito dalla ricorrente – circa il tempo trascorso tra la pubblicazione e la patologia psichica insorta si tratta di valutazione, in sè, indubbiamente controvertibile.
Del resto, anche la ricorrente ha osservato che lo stato ansioso/depressivo potrebbe manifestarsi anche a distanza di tempo dall’accaduto.
La censura, quindi, non si traduce in una manifesta illogicità della motivazione.
Il ricorso viene integralmente rigettato e viene disposto in capo alla ricorrente l’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato.
La ricorrente, inoltre, viene condannata al pagamento delle spese di giudizio liquidate in euro 7.800,00 oltre spese forfettarie e accessori di legge.
Avv. Emanuela Foligno
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