Danno biologico ed esistenziale per la deprivazione del rapporto genitoriale

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La figlia cita in giudizio il padre per la corresponsione di un assegno di mantenimento e per il risarcimento del danno biologico ed esistenziale derivante dalla deprivazione del rapporto genitoriale.

La donna indica di essere nata il 15 giugno 1987 e di aver creduto fino alla maggiore età di essere figlia del marito della madre per poi scoprire, il 23 agosto 2005, presso la Caserma dei Carabinieri, ove era finita a causa di una fuga dalla casa di residenza, in concomitanza con la separazione dei propri genitori, di essere in realtà figlia di Gi. Ro., all’epoca datore di lavoro della genitrice e di colui che credeva essere il padre, il quale aveva intrattenuto con la madre una relazione extraconiugale clandestina.

Tale scoperta aveva causato nella donna una situazione di permanente disagio, di dolore e di risentimento nei confronti di tutti i soggetti coinvolti, aggravata dal fatto che nel 2006, in concomitanza della separazione personale dei genitori legittimi, il marito della madre aveva proposto dinanzi al Tribunale di Siena un’azione di disconoscimento della paternità, revocandole il proprio cognome, tanto che ella aveva assunto un diverso cognome.

A seguito di ciò, la donna ricorreva al Tribunale di Siena per ottenere la dichiarazione giudiziale di paternità (del padre biologico), chiedendo l’accertamento della filiazione e la condanna dell’uomo al pagamento di un cospicuo assegno di mantenimento mensile, ovvero la somma una tantum di 100.000 euro, oltre al risarcimento dei danni morale, biologico ed esistenziale per la deprivazione del rapporto genitoriale.
La giovane donna aggiungeva di essere stata indotta a rinunciare a tale azione giudiziale, poiché colpita dall’affettuosa e costante presenza dei genitori naturali, confidando nella promessa che il riconoscimento da parte del padre naturale sarebbe avvenuto entro breve tempo, insieme all’impegno di provvedere al suo mantenimento e di instaurare con lei un sereno legame affettivo. L’uomo però non aveva mai adeguatamente provveduto al suo mantenimento e aveva svolto il suo riconoscimento soltanto nell’anno 2012, anno in cui aveva finalmente assunto il cognome del padre biologico senza, tuttavia, instaurare con lui un vero e proprio rapporto figlio-genitore.

Pertanto, in data 21 dicembre 2013, citava in giudizio il padre davanti al Tribunale di Siena, per sentirlo condannare al pagamento in suo favore della somma una tantum di euro 200.000,00, a titolo di mantenimento per il periodo di 25 anni intercorso tra la nascita e il riconoscimento avvenuto nell’anno 2012, e al pagamento di un assegno mensile, a far data dal riconoscimento (febbraio 2012) fino al raggiungimento dell’indipendenza economica, da liquidarsi nella misura di 1.000 euro, oltre al risarcimento del danno biologico ed esistenziale.

Il Tribunale di Siena, con sentenza n. 205/2019, condannava l’uomo al risarcimento del danno, liquidato in 260.000 euro, oltre interessi e rivalutazione dal dovuto (15/06/87) al saldo effettivo.

Il Giudice osservava, in particolare, che era stata raggiunta la prova della circostanza che l’uomo sapesse di essere il padre della ragazza fin dalla sua nascita. Aggiungeva il Tribunale che il comportamento dell’uomo aveva creato un danno alla stessa identità personale della ragazza, per averla fatta vivere nella falsa convinzione di avere un padre che tale non era; aveva comportato una lesione ai diritti fondamentali della sua persona in riferimento alla genitorialità celata dolosamente dal padre naturale; imponeva una condanna in via equitativa nella misura come sopra determinata. Nulla decideva in ordine al mantenimento.

La decisione dell’Appello

La Corte d’Appello, invece, respinge la domanda di risarcimento del danno endofamiliare e condanna l’uomo a corrispondere alla figlia, a titolo di obbligazione alimentare, l’importo di 36.000 euro. In particolare, i Giudici rilevavano che l’onere della prova, relativo alla conoscenza da parte dell’uomo della sua paternità naturale, in quanto fatto costitutivo del diritto al risarcimento fatto valere in giudizio dalla figlia, gravava su quest’ultima e non era stato adeguatamente assolto e, ragionando in tal senso, eccepivano la incapacità a testimoniare della madre. Le altre testimonianze svolte si rivelavano per lo più generiche in quanto non ancorate a elementi fattuali specifici. I Giudici motivavano il rigetto della domanda risarcitoria partendo dalla considerazione che l’illecito endofamiliare attribuito al padre per deprivazione del rapporto genitoriale presupponeva la consapevolezza della procreazione non evincibile dalle prove di giudizio. In tale quadro, la Corte d’Appello riconosceva solo la sussistenza di obblighi alimentari del padre per lo stato di bisogno in cui la figlia si era trovata, dal dicembre 2007 (dopo il disconoscimento del marito della madre) al dicembre 2017 (mese in cui la donna aveva reperito un’occupazione), liquidando, come detto, l’importo di 36.000 euro.

Il ricorso in Cassazione

La Corte di Cassazione, nell’analizzare l’impugnazione della giovane donna evidenzia primariamente che la madre della stessa è stata erroneamente dichiarata incapace a testimoniare.

L’interesse a partecipare al giudizio previsto come causa d’incapacità a testimoniare dall’art. 246 c.p.c. si identifica con l’interesse a proporre la domanda e a contraddirvi ex art. 100 c.p.c., sicché deve ritenersi colpito da detta incapacità chi potrebbe, o avrebbe potuto, essere chiamato dall’attore, in linea alternativa o solidale, quale soggetto passivo della stessa pretesa fatta valere contro il convenuto originario, nonché il soggetto da cui il convenuto originario potrebbe, o avrebbe potuto, pretendere di essere garantito. In effetti, l’incapacità prevista dall’art 246 c.p.c. si verifica quando il teste è titolare di un interesse personale, attuale e concreto, che lo coinvolga nel rapporto controverso, alla stregua dell’interesse ad agire e a contraddire di cui all’art. 100 c.p.c., sì da legittimarlo a partecipare al giudizio in cui è richiesta la sua testimonianza, con riferimento alla materia che ivi è in discussione.

La testimonianza negata della madre

Proprio in tema di dichiarazione giudiziale della paternità naturale, e con riferimento all’ipotesi in cui l’azione sia esperita dal figlio oramai maggiorenne, la S.C. ha più volte affermato che non può configurarsi un interesse principale ad agire della madre naturale, ai sensi dell‘art. 276, ultimo comma, c.c., potendo semmai essa svolgere un intervento adesivo dipendente, allorché sia ravvisabile un suo interesse di fatto tutelabile in giudizio. In ogni caso, le dichiarazioni della madre naturale assumono un rilievo probatorio integrativo ex art. 116 c.p.c., quale elemento di fatto di cui non si può omettere l’apprezzamento ai fini della decisione, indipendentemente dalla qualità di parte o dalla formale posizione di terzietà della dichiarante, con la conseguente inapplicabilità dell’art. 246 c.p.c.

Pertanto, nel giudizio di accertamento della paternità del figlio maggiorenne, la madre non è, in sé, portatrice di un interesse alla partecipazione al processo, potendo semmai far valere un eventuale interesse di fatto a farvi ingresso, con un intervento adesivo dipendente.

E, in effetti, nella specie, la ricorrente ha prospettato di aver subito un danno non patrimoniale in conseguenza del tardivo riconoscimento del padre, pur consapevole della paternità, chiedendo a quest’ultimo la corresponsione del contributo al mantenimento, non prestato fino al riconoscimento, e il contributo al mantenimento dovuto per il tempo successivo, fino al raggiungimento dell’indipendenza economica.

Recentemente la S.C. ha precisato (Cass. 24950/2022), con riferimento al risarcimento del danno subito dal figlio in conseguenza dell’abbandono da parte di uno dei genitori, occorre che quest’ultimo non abbia assolto ai propri doveri consapevolmente e intenzionalmente, o anche solo ignorando per colpa l’esistenza del rapporto di filiazione, aggiungendo che la prova di ciò può desumersi da presunzioni gravi, precise e concordanti, ricavate dal complesso degli indizi, da valutarsi nel loro insieme e l’uno per mezzo degli altri, nel senso che ognuno di essi, quand’anche singolarmente sfornito di valenza indiziaria, può rafforzare e trarre vigore dall’altro in un rapporto di vicendevole completamento.

In conclusione, viene enunciato il seguente principio:

In tema di incapacità a testimoniare nel processo civile, tale incapacità sussiste quando il teste è titolare di un interesse personale, attuale e concreto, che lo coinvolga nel rapporto controverso, alla stregua dell’interesse ad agire e a contraddire di cui all’art. 100 c.p.c., con riferimento alla domanda in concreto formulata, e non ad un ipotetica analoga domanda esperibile, sicché nel giudizio volto all’accertamento del pregiudizio lamentato dal figlio, oramai maggiorenne, conseguente al consapevole tardivo riconoscimento della paternità da parte del padre biologico, va esclusa l’incapacità a testimoniare dalla madre, ove oggetto del giudizio sia la violazione degli obblighi morali e materiali derivanti dalla filiazione, riferiti esclusivamente al rapporto tra padre e figlio” (Cassazione Civile, sez. I, 18/03/2024, n.7171).

La causa viene rinviata alla Corte d’Appello di Firenze per nuovo giudizio.

Avv. Emanuela Foligno

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