Riconosciuto il danno biologico permanente nella misura del 25% per il deficit funzionale alle braccia, respinte le richieste di perdita di chance, perdita della capacità lavorativa ed esistenziale (Tribunale di Treviso, Sentenza n. 1536/2021 del 23/09/2021 RG n. 4424/2018 Repert. n. 3188/2021 del 23/09/2021)

Il paziente conviene in giudizio l’Azienda Ospedaliera al fine di accertarne la responsabilità per le lesioni riportate a seguito dei fatti accaduti in data 17 aprile 2013 e vederla condannata al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti. L’attore espone che in seguito a ecografia al collo e risonanza magnetica al collo e al torace, esami svolti tra il 18 dicembre 2017 e il 24 dicembre 2017 presso il dipartimento di radiologia clinica dell’Unità Locale Sociosanitaria n. 9 di Treviso, in seguito all’emersione di un quadro clinico “sospetto per lesione linfoproliferativa” e all’asportazione di un linfonodo, veniva attestata la presenza di “Linfoma di Hodgkin classico variante scleronodurale” e, pertanto, in data 18 febbraio 2013 iniziava il primo ciclo di polichemioterapia. Nel corso del trattamento di chemio terapia per infusione, tenutosi in data 17 aprile 2013 presso l’Ospedale, l’attore allertava il personale infermieristico della presenza di una tumefazione all’avambraccio destro, intorno alla sede di agopuntura e, per tale ragione, il personale intervenuto provvedeva ad incannulare un’altra vena, all’arto superiore sinistro, ove si verificava una nuova fuoriuscita del letto venoso, sicché il trattamento endovenoso veniva ultimato utilizzando una vena della mano destra. A causa di quanto accaduto, da aprile 2013 a giugno 2015 lo stesso si era dovuto sottoporre a diverse visite mediche poiché a causa dello stravaso di liquido chemioterapico, che aveva interessato prima l’arto superiore destro e poi il sinistro, era conseguita una lesione ad entrambi gli avambracci, che si era tradotta in un deficit funzionale alle braccia consistente in una grave limitazione della loro mobilità sia in estensione che rotazione, nonché un danno estetico per le cicatrici.

L’attore precisa di avere contestato all’Azienda i danni subiti e che, tuttavia, le parti non erano riuscite a trovare alcun accordo economico in sede di Mediazione.

Riguardo ai danni subiti, deduce di avere subito un danno da perdita di chance, dal momento che le limitazioni motorie dell’attore, comportando una notevole diminuzione delle potenzialità produttive ed operative; allegava, inoltre, la riduzione della capacità lavorativa specifica (stimata nel 33%) non potendo più svolgere l’attività di geometra in cantiere, aveva dovuto accettare un posto da dipendente presso un’azienda subendo una diminuzione del proprio reddito.

Chiede, dunque, un importo pari ad euro 358.964,73; oltre ad una somma pari ad euro 10.000,00 (corrispondente al costo di un ‘auto con cambio automatico moltiplicato per 6 anni, costituenti la vita media di un ‘auto) in considerazione del fatto che a causa del danno biologico (stimato nel 30-35%), poteva guidare esclusivamente auto con il cambio automatico. Chiede, infine, il rimborso delle spese sostenute da liquidarsi in via equitativa e il riconoscimento del danno esistenziale per il peggioramento della qualità della vita.

L’azienda Sanitaria si costituisce in giudizio e deduce che lo stravaso era stato immediatamente trattato dai sanitari con l’interruzione dell’infusione e aspirazione, applicazione di ghiaccio e chiamata del Medico di reparto.

Il Tribunale istruisce la pratica disponendo una CTU Medico-Legale e un successivo supplemento con la nomina di altro collegio peritale.

Nell’elaborato peritale viene indicato che “durante un ciclo chemioterapico il rischio di stravaso, ossia di infiltrazioni della chemioterapia nel tessuto sottocutaneo o nei tessuti subdermici circostanti il sistema venoso o arterioso, può derivare da fattori inerenti tanto le condizioni del paziente quanto la procedura; fra i primi devono rientrano la presenza di vene piccole/fragili, vene dure e /o sclerosate dovute per esempio a precedenti cicli di chemioterapia, vene prominenti ma mobili o di malattie o situazioni note associate a una circolazione alterata, mentre tra i secondi devono essere segnalati la mancanza di preparazione o esperienza del personale, multipli tentativi di cannulamento dell’accesso periferico, un sito di cannulazione sfavorevole, iniezioni di farmaci in boli, l’alta pressione di flusso, l’attrezzatura errata. Sembrerebbe che tale valutazione sia stata correttamente effettuata prima di iniziare il primo ciclo di chemioterapia” e che dall’anamnesi patologica remota dello stesso sin dall’inizio della chemioterapia non erano presenti fattori di rischio paziente – relati o controindicazioni. Tuttavia lo stravaso di doxorubicina si è verificato in corrispondenza della prima seduta del terzo ciclo di chemioterapia; il paziente dunque era già stato sottoposto a quattro sedute di chemioterapia, motivo per il quale è possibile che potesse presentare uno dei fattori di rischio sopraindicati ossia la presenza di vene più dure e fragili e in quanto tali più prone alla rottura, ma tale reperto tuttavia non è descritto in cartella, né nei referti delle visite di controllo ematologiche effettuate tra le sedute di chemioterapia e pertanto non è possibile stabilire quale fosse la condizione delle vene degli arti superiori in quel momento”.

“Sulla base della documentazione non è possibile risalire alle procedure e ai presidi medici utilizzati per l’infusione della terapia chemioterapica e se fossero pertanto presenti fattori di rischio procedura -relati. Da quanto riportato dal paziente la cannula per l’infusione era stata inserita nell’avambraccio destro ma, alla fine della sacca di doxorubicina, lui stesso aveva rilevato la tumefazione a livello del gomito segnalandolo all’infermiera; quest’ultima dunque aveva proceduto all’ “aspirazione del sangue dalle vene, Desametasone 4 mg ev, Hirudoid pomata ed applicazioni di ghiaccio ” e ad un nuovo accesso venoso a livello dell’arto superiore sinistro, ma dopo circa un minuto dalla cannulazione, a causa del forte bruciore avvertito dal paziente era stato riscontrato un nuovo stravaso di chemioterapico.”

Poiché il paziente nell’arco dei cicli precedenti non aveva presentato complicanze, “il doppio stravaso occorso durante l’infusione della chemioterapia del 15.04.2013 è indicativo del fatto che ci siano state delle criticità durante tale seduta ” e che “tali criticità possono essere attribuibili alla non attuazione delle buone pratiche di prevenzione degli stravasi o più semplicemente ad una non adeguata attenzione dell’infermiera che ha eseguito la cannulazione delle vene degli avambracci causando lo stravaso “; se infatti un singolo stravaso può essere determinato da una complicanza nonostante l’adozione di tutte le buone pratiche assistenziali, un doppio stravaso è improbabile possa verificarsi quando queste siano state messe in atto correttamente” .

“Dalla documentazione sanitaria non risulta possibile stabilire se gli operatori sanitari abbiano messo in atto tutte le procedure atte a prevenire lo stravaso e che di conseguenza tale evento sia riconducibile ad una mera complicanza”.

Il Giudice aderisce alle conclusioni dei CTU e ritiene accertata la responsabilità dell’Azienda per la condotta colposa degli operatori sanitari.

Passando al vaglio il ristoro dei danni invocati dall’attore, il Giudice dà atto che “il doppio stravaso ha determinato una lesione iatrogena a carico della regione prossimale -volare degli avambracci che è stato sottoposto a terapia medica nei giorni e mesi successivi “.

In particolare, la reazione infiammatoria che è sorta successivamente ha cagionato sia una trombosi delle vene dell’avambraccio destro sia estese aree cicatriziali bilaterali degli arti superiori che si sono tradotte, da un lato, in incapacità funzionale dell’articolazione del gomito destro e, dall’altro, in un pregiudizio estetico degli arti superiori, con un danno biologico permanente nella misura intorno ai 25% punti percentuali, danno biologico temporaneo in 90 giorni al 50% per l’infiammazione locale, la flebite e la trombosi dei vasi venosi dell’avambraccio destro.

Le valutazioni del CTU sono state oggetto di ulteriore approfondimento al fine di stabilire se la menomazione biologica del paziente possa migliorare a seguito di intervento riparativo di chirurgia plastica, valutando la fattibilità e il grado di rischio di quest’ultimo. Nel dettaglio l’intervento dovrebbe consistere in una prima fase di rimozione dell’ampia area cicatriziale al termine della quale sarebbe necessario valutare interessamento del tendine distale del bicipite per effettuare un possibile allungamento dello stesso; sottoponendo il paziente all’intervento, secondo il parere del CTU, si assisterebbe ad un recupero della mobilità del braccio di circa la metà rispetto alla condizione attuale, “a prezzo di cicatrici a livello del braccio e di sacrificio di un asse vascolare importante a livello della mano “, considerando che se ciò non determina conseguenze dal punto di vista funzionale, qualora gli assi vascolari residui siano validi , “l’interruzione dell’arteria radiale può successivamente dare una sindrome dell’arto freddo “.

I consulenti hanno altresì evidenziato che l’intervento in questione, oltre a lasciare dei reliquati , presenta rischi di recidiva e complicanze, consistenti tanto nel possibile processo necrotico del lembo con conseguente necessità di un secondo o anche terzo intervento quanto nel rischio infettivo “perché i tessuti sono fortemente danneggiati dal l’evento e hanno un a capacità di vascolarizzazione e guarigione decisamente inferiore , e soprattutto non si può escludere che dopo la prima operazione siano necessari più interventi successivi; l’intervento in questione infatti non è di semplice esecuzione, non rientra tra le attività chirurgiche di tipo routinario, ma è tecnicamente eseguibile”.

Per la liquidazione del danno vengono utilizzate le tabelle milanesi e viene riconosciuto a titolo di danno biologico permanente l’importo di euro 109.469,00, oltre a euro 4.410 ,00 per I.T. , per un importo complessivo di euro 113.879,00.

Riguardo la perdita della capacità lavorativa, l’attore al momento dell’evento era titolare di un’azienda edile per la quale svolgeva prettamente un ruolo tecnico-commerciale e di supervisione, effettuando in caso di necessità anche mansioni di tipo pratico-manuale con gli artigiani impegnati nei cantieri.

Ebbene, pur avendo il CTU rilevato che, la menomazione in oggetto si ripercuote negativamente su attività pratico -manuali tipiche di un cantiere edile, da quantificare intorno al 25%, ricade sul danneggiato fornire la prova dei pregiudizi subiti e per i quali chiede il risarcimento; in tale ipotesi parte attrice, oltre ad aver affermato in sede di CTU di svolgere solo quando necessario anche attività manuali, non ha allegato la tipologia di mansione eventualmente espletata.

Per tale ragione il pregiudizio lamentato non viene ristorato.

Le spese di CTU vengono poste in capo alla parte convenuta, mentre le spese di lite vengono compensate attesi gli esiti del giudizio e la parziale soccombenza sulle voci di danno ulteriori richieste.

Avv. Emanuela Foligno

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