Con sentenza del 30 giugno 2015, n. 3249, il Consiglio di Stato si è pronunciato in materia di risarcimento danno da perdita di chance derivante dalla mancata partecipazione a procedure di gara indette per l’aggiudicazione di appalti pubblici, ribadendo alcuni principi affinati nel tempo dalla sua giurisprudenza
La responsabilità della Pubblica Amministrazione è stata per anni, variamente inquadrata dalla giurisprudenza, dapprima nello schema della responsabilità extracontrattuale, poi in un diverso modello di responsabilità c.d. “da contratto procedimentale”, costruito in un primo momento come precontrattuale, poi come contrattuale, infine come paracontrattuale, ovverosia con caratteri dell’uno o dell’altro istituto.
Pur nella non univocità delle posizioni giurisprudenziali, è emersa l’intenzione di tracciare un progressivo riconoscimento, sempre più ampio della responsabilità della Pubblica Amministrazione, come principio di civiltà giuridica e garanzia del soddisfacimento delle istanze dei privati, troppo a lungo sacrificate dalla supremazia dei pubblici poteri (Tremante).
I giudici amministrativi, in sempre più numerose sentenze, hanno recepito l’indirizzo di quella dottrina che, sull’insegnamento dell’esperienza francese, ha proposto di riconoscere una generalizzata risarcibilità del danno da perdita di chance, soprattutto nell’ambito della responsabilità contrattuale.
Tale figura, tuttavia, prima di ottenere l’auspicato suggello giurisprudenziale, ha sollevato non poche riserve, testimoniando le difficoltà di pensare a un “danno” (da perdita di chance – appunto) effettivamente distinto dall’usuale rapporto di causalità strutturato in termini probabilistici.
Come noto, il termine “chance”, originario della lingua francese, si traduce letteralmente con fortuna, sorte, ma anche probabilità o possibilità e deriva a sua volta, dal latino cadentia, ovverosia caduta (di dadi).
Varie sono le interpretazioni dottrinali circa la perdita di chance. Per alcuni, essa si traduce con la mera possibilità, l’aspettativa di un’utilità futura e incerta che, in quanto tale, deve considerarsi meritevole di autonoma tutela risarcitoria. Ciò in quanto, la perdita di chance – così considerata – si tradurrebbe in una lesione non rimediabile di una possibilità di conseguire un bene della vita, tale da assurgere ad autonoma entità giuridicamente rilevante sotto il profilo risarcitorio.
In questi termini, la lesione della chance cagionerebbe una diminuzione dell’integrità patrimoniale del soggetto titolare, attuale e non meramente potenziale.
Secondo un diverso orientamento, si tratterebbe – in verità – soltanto di una finzione giuridica, un istituto “inventato” al solo fine di riconoscere dignità giuridica ad una situazione di fatto (la mera possibilità di ottenere un risultato favorevole) che, tuttavia, da sola, non troverebbe alcuna giustificazione sotto il profilo risarcitorio.
Altri, ancora, inquadrano tale istituto, nell’ambito del lucro cessante futuro, risarcibile purché si accerti la sussistenza del nesso causale tra la perdita lamentata e la perdita dell’opportunità favorevole e sia, al tempo stesso, riscontrabile una ragionevole probabilità che essa concretamente si verifichi (valutazione da effettuare sulla base di elementi certi e oggettivi).
In tal senso, la perdita di chance, assumerebbe autonomo valore patrimoniale solo se condizionata all’esito di un giudizio ex ante prognostico-probabilistico, circa la materiale e concreta possibilità che il soggetto danneggiato avrebbe avuto, in assenza del provvedimento illegittimo della Pubblica Amministrazione, di conseguire l’utilità finale.
Diversamente dagli sforzi dottrinali, tutti protesi nel tentativo di dare una definizione pressoché unanime e coerente al concetto di chance, in giurisprudenza, si è cercato di individuare concretamente quei parametri e, con essi quei criteri di giudizio, alla stregua dei quali valutare, di volta in volta, l’esistenza di una plausibile dignità risarcitoria alla posizione così delineatasi.
Così ad esempio, il Consiglio di Stato (Sez. VI, sentenza 7 febbraio 2002, n. 686) ha affermato che: «…La concretezza della probabilità deve essere statisticamente valutabile con un giudizio sintetico che ammetta – con giudizio ex ante, secondo l’id quod plerumque accidit, sulla base degli elementi di fatto forniti dal danneggiato – che il pericolo di non verificazione dell’evento favorevole, indipendentemente dalla condotta illecita, sarebbe stato inferiore al cinquanta per cento».
Si tratta, a ben vedere, di un criterio tutt’altro che risolutorio; al contrario, dovrà affermarsi – tenuto conto anche delle peculiarità dell’istanza risarcitoria da perdita di chance conseguente all’illegittimo esercizio della funzione amministrativa – la necessità di procedere volta per volta ad un diverso giudizio prognostico, a seconda che la lesione dell’interesse legittimo medesimo, sia legata ad attività vincolata, tecnico-discrezionale o discrezionale pura della Pa.
Il concetto di discrezionalità amministrativa descrive uno dei due possibili moduli di interazione tra l’azione pubblica e la legge.
Come è noto, il potere pubblico incontra sempre il proprio fondamento nella legge.
In alcuni casi, però, la legge determina in modo puntuale il modus operandi dell’Autorità pubblica: al riguardo si parla tradizionalmente di attività “vincolata” della Pubblica Amministrazione.
In altri casi, invece, la legge si limita a individuare l’interesse pubblico al cui soddisfacimento è tenuta la P.A., almeno attraverso la pura e semplice attribuzione di competenza a un organo pubblico: in queste ipotesi sorgono i presupposti per l’esercizio dell’attività “discrezionale” dell’organo pubblico, cui è rimessa la ricerca del modo migliore per il soddisfacimento dell’interesse pubblico positivamente determinato.
Secondo la dottrina, la discrezionalità rappresenta la facoltà di scelta fra più comportamenti giuridicamente leciti per il soddisfacimento dell’interesse pubblico e per il perseguimento di un fine rispondente alla causa del potere esercitato.
Pertanto, mentre nelle ipotesi di attività vincolata o tecnico-discrezionale il giudice può sostituirsi alla P.A., individuando il grado di possibilità di ottenimento da parte del privato del bene della vita; al contrario, in caso di attività discrezionale pura, essendo maggiore l’ambito di valutazione rimesso alla amministrazione, maggiore sarà anche l’alterazione del giudizio probabilistico: il giudice non potrà indebitamente surrogarsi al potere amministrativo. In tali casi, certamente non sarà possibile compiere un giudizio prognostico in termini di preciso calcolo percentuale, ma non è escluso che si possa riconoscere una perdita di chance, in base al grado di approssimazione al bene della vita raggiunto dal ricorrente.
Ad ogni modo, alla luce di queste considerazioni, appare impossibile classificare l’istituto della perdita di chance secondo schemi rigidi, che non tengano conto delle particolarità delle singole fattispecie poste alla valutazione dell’organo giudicante.
Un settore nel quale il danno da perdita di chance ha cominciato, da tempo e con una certa frequenza a manifestarsi è quello della lesione degli interessi legittimi. La lesione di interessi legittimi è suscettibile di risarcimento qualora il danneggiato risulti titolare non di una mera aspettativa di fatto, «bensì di una situazione soggettiva – la chance – suscettibile di determinare un oggettivo affidamento circa il conseguimento, secondo un criterio di normale probabilità di un esito favorevole».
La soluzione è condivisibile, soprattutto per quella parte importante di illeciti relativi ad illegittimità nello svolgimento di gare ad evidenza pubblica. Per questi il pregiudizio subito consiste proprio nella perdita della possibilità di conseguire un certo risultato, in conseguenza di un’attività illegittima della pubblica amministrazione.
Ebbene, con sentenza del 30 giugno 2015, n. 3249, il Consiglio di Stato si è pronunciato in materia di risarcimento danno da perdita di chance derivante dalla mancata partecipazione a procedure di gara indette per l’aggiudicazione di appalti pubblici, ribadendo alcuni principi affinati nel tempo dalla sua giurisprudenza.
Nella specie, conformemente alla consolidata giurisprudenza in materia (cfr., da ultimo, Cons. Stato, Sez. IV, n. 131 del 2015; Sez. V, n. 3082 del 2014; Sez. V, n. 2195 del 2014; Cass. civ., n. 20351 del 2010 e n. 21255 del 2013, cui si rinvia a mente degli artt. 74 e 120, co. 10, c.p.a.) ha chiarito che:
I) il danno da «perdita di chance» è da intendersi, in linea di principio, quale lesione della concreta occasione favorevole di conseguire un determinato bene, occasione che non è mera aspettativa di fatto, ma entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione;
II) in ordine alla prova del grado di concreta ed effettiva possibilità di conseguire il bene della vita, va rilevato come, superata la teoria ‘ontologica’ secondo cui la risarcibilità sarebbe svincolata dalla idoneità presuntiva della chance ad ottenere il risultato finale, si sia affermato il diverso indirizzo c.d. eziologico, legato al criterio della c.d. causalità adeguata o ‘regolarità causale’ o ‘probabilità prevalente’;
III) pertanto il danno da perdita di chance può essere in concreto ravvisato e risarcito (ove ne ricorrano i presupposti anche in via equitativa), solo con specifico riguardo al grado di probabilità che in concreto il richiedente avrebbe avuto di conseguire il bene della vita e, cioè, in ragione della maggiore o minore probabilità dell’occasione perduta;
IV) ne deriva che il ricorrente ha l’onere di provare gli elementi atti a dimostrare, pur se solo in modo presuntivo e basato sul calcolo delle probabilità, la possibilità concreta che egli avrebbe avuto di conseguire il risultato sperato, atteso che la valutazione equitativa del danno, ai sensi dell’articolo 1226 del codice civile, presuppone che risulti comprovata l’esistenza di un danno risarcibile; in particolare, la lesione della possibilità concreta di ottenere un risultato favorevole presuppone che sussista una probabilità di successo (nella specie di vedersi aggiudicato l’appalto) almeno pari al 50 per cento, poiché, diversamente, diventerebbero risarcibili anche mere possibilità di successo, statisticamente non significative.
Avv. Sabrina Caporale