La Corte di Cassazione ha chiarito i criteri che il giudice di merito deve seguire nel caso di risarcimento del danno derivante da incidente stradale a un soggetto con invalidità preesistente

Nel 2013 la vittima di un incidente stradale citò in giudizio la compagnia assicurativa del veicolo responsabile del sinistro, chiedendo il risarcimento di tutti i danni subiti.

La società si costituì in giudizio negando che l’infortunio avesse causato le conseguenze dannose descritte dall’attore; allegò, inoltre, di avere già versato a quest’ultimo la somma di 12.000 euro, che avrebbe dovuto ritenersi “satisfattiva”.

Il giudice di primo grado accolse la domanda, ritenendo che l’infortunio avesse causato al danneggiato una invalidità permanente del 6,5%; tale invalidità aveva tuttavia attinto una persona dalla salute già compromessa; pertanto il risarcimento dovuto all’attore avrebbe dovuto essere liquidato non già monetizzando una invalidità di grado pari al 6,5%, ma calcolando la differenza tra il valore monetario del grado di invalidità permanente di cui la vittima era già portatrice prima dell’infortunio (60%), ed il grado di invalidità permanente complessivamente residuato all’infortunio medesimo (66,5%).

La Corte d’appello di Milano, confermò la decisione di primo grado aggiungendo che “la liquidazione del danno alla salute deve avvenire tenendo conto dell’effettiva incidenza della menomazione sulla vita quotidiana della vittima; e che di conseguenza se la vittima è già portatrice di postumi invalidanti pregressi, la sottrazione ai fini del calcolo del danno deve essere operata non già tra i diversi gradi di invalidità permanente, bensì tra i valori monetari previsti in corrispondenza degli stessi”.

Per la Cassazione della sentenza ha proposto ricorso la società assicurativa muovendo dal presupposto che i postumi dei quali può rimanere vittima una persona già invalida vanno distinti in due categorie: le lesioni “concorrenti” e quelle “coesistenti”. Le prime aggravano l’invalidità preesistente, le seconde no.

Da questa premessa ne deriva – a detta del ricorrente – che, in presenza di lesioni concorrenti, il risarcimento del danno deve essere aumentato, mentre ciò non va fatto in presenza di lesioni coesistenti.

Nel caso in esame era indubbio che la vittima avesse subito un intervento di protesi d’anca, quale conseguenza del sinistro; pertanto le lesioni subite in conseguenza dell’incidente avrebbero dovuto essere qualificate come “coesistenti; ciononostante, la Corte d’Appello aveva liquidato un risarcimento maggiorato rispetto a quello che sarebbe spettato a una persona sana, addossando al responsabile e al suo assicuratore della r.c.a. conseguenze dannose che essi non avevano provocato.

L’accoglimento d’una domanda di risarcimento del danno – hanno chiarito gli Ermellini – richiede l’accertamento di due nessi di causalità:

a) il nesso tra la condotta e l’evento di danno – inteso come lesione di un interesse giuridicamente tutelato -, o nesso di causalità materiale;

b) il nesso tra l’evento di danno e le conseguenze dannose risarcibili, o nesso di causalità giuridica.

L’accertamento del primo è necessario per stabilire se vi sia responsabilità e a chi vada imputata; l’accertamento del secondo nesso serve a stabilire la misura del risarcimento.

Il nesso di causalità materiale è dunque un criterio oggettivo di imputazione della responsabilità; il nesso di causalità giuridica consente invece di individuare e selezionare le conseguenze dannose risarcibili dell’evento.

La preesistenza di malattie o menomazioni in capo alla vittima del fatto illecito può astrattamente incidere tanto sul primo, quanto sul secondo dei suddetti nessi. L’invalidità o la malattia pregressa, infatti, possono teoricamente costituire tanto una concausa di lesione (per esempio il responsabile infligge un lieve urto, altrimenti innocuo, a persona affetta da osteogenesi imperfetta o sindrome di Lobstein, provocandole gravi fratture), quanto una concausa di menomazione (per esempio il responsabile provoca l’amputazione della mano destra a chi aveva già perduto l’uso della sinistra).

Le preesistenze, dunque, sono una circostanza che pongono all’interprete un problema di causalità: materiale, se dovessero rappresentare una concausa di lesione; e giuridica, se dovessero rappresentare una concausa di menomazione.

Se la preesistenza ha concausato la lesione iniziale dell’integrità psicofisica (come nel caso di scuola dell’emofiliaco cui venga inflitta una minuscola ferita), di essa non dovrà tenersi conto nella liquidazione del danno, e tanto meno nella determinazione del grado di invalidità permanente.

In questo caso infatti la preesistenza della patologia costituisce una concausa naturale dell’evento di danno, e il concorso del fatto dell’uomo con la concausa naturale rende quest’ultima giuridicamente irrilevante in virtù del precetto dell’equivalenza causale dettato dall’art. 41 c.p.

Se la preesistenza di malattie o menomazioni non ha concausato la lesione nè ha aggravato o è stata aggravata dalla menomazione sopravvenuta (cosiddette menomazioni “coesistenti”), anche in questo caso di essa non dovrà tenersi conto nella liquidazione del danno, e tanto meno nella determinazione del grado di invalidità permanente.

A ogni modo, il concetto di “coesistenza” – ha aggiunto la Suprema Corte – va valutato a posteriori e in concreto, non a priori ed in astratto.

Non si può infatti escludere aprioristicamente che successive menomazioni riguardanti lo stesso organo possano non aggravarsi le une a causa delle altre.

Allo stesso modo, non può proclamarsi a priori che menomazioni riguardanti organi diversi mai interferiscano tra loro (si pensi all’ipotesi della perdita del tatto in una persona non vedente).

Diversa è l’ipotesi in cui lo stato anteriore della vittima non abbia concausato la lesione, ma abbia concausato il consolidarsi di postumi più gravi rispetto a quelli che avrebbe patito la vittima se fosse stata sana al momento dell’illecito.

In questo caso è centrale il ruolo del medico-legale, che dovrà fornire al giudice due dati: a) il grado di invalidità permanente obiettivo e complessivo presentato dalla vittima; b) il grado in punti percentuali di invalidità permanente della vittima prima dell’infortunio

«Una volta stabilito il grado di invalidità permanente effettivo patito della vittima e quello presumibile se il sinistro non si fosse verificato, la liquidazione del danno non potrà certo avvenire sottraendo brutalmente il secondo dal primo, applicando (erroneamente) il criterio del frazionamento della causalità materiale.

D’altra parte, d’una persona invalida al 60%, che in conseguenza d’un fatto illecito divenga invalida al 70%, non si dirà che ha patito una invalidità del 10%, da liquidare con criteri più o meno modificati rispetto a quelli standard».

Il danno alla salute consiste infatti «nelle rinunce forzose indotte dalla menomazione, non nel punteggio di invalidità permanente. Pertanto chi è invalido al 70% ha perduto – teoricamente – la possibilità di svolgere il 70% delle attività precedentemente svolte, e la stima di questo danno non può che avvenire ponendo a base del calcolo il valore monetario previsto per una invalidità del 70%».

Così, per esempio, il soggetto monocolo che abbia perso l’occhio sano in conseguenza della condotta illecita altrui, non potrà vedersi risarcire, sic et simpliciter, il valore monetario della percentuale di invalidità prevista per la perdita di un occhio, dovendosi viceversa procedere alla quantificazione del risarcimento sulla base delle capacità perdute, e dunque sulla base della perdita dell’intero senso della vista, e non di quella dell’organo materialmente leso.

Riassumendo la Terza Sezione Civile della Cassazione (sentenza n. 28986/2019) ha affermato che:

  1. lo stato anteriore di salute della vittima di lesioni personali può concausare la lesione, oppure la menomazione che da quella derivata;
  2. la concausa di lesioni è giuridicamente irrilevante;
  3. la menomazione preesistente può essere concorrente o coesistente col maggior danno causato dall’illecito;
  4. saranno “coesistenti” le menomazioni i cui effetti invalidanti non mutano per il fatto che si presentino sole o associate ad altre menomazioni, anche se afferenti i medesimi organi; saranno, invece, “concorrenti” le menomazioni i cui effetti invalidanti sono meno gravi se isolate, e più gravi se associate ad altre menomazioni, anche se afferenti a organi diversi;
  5. le menomazioni coesistenti sono di norma irrilevanti ai fini della liquidazione; nè può valere in ambito di responsabilità civile la regola sorta nell’ambito dell’infortunistica sul lavoro, che abbassa il risarcimento sempre e comunque per i portatori di patologie pregresse;
  6. le menomazioni concorrenti vanno di norma tenute in considerazione: a) stimando in punti percentuali l’invalidità complessiva dell’individuo (risultante, cioè, dalla menomazione preesistente più quella causata dall’illecito), e convertendola in denaro; b) stimando in punti percentuali l’invalidità teoricamente preesistente all’illecito, e convertendola in denaro; lo stato di validità anteriore al sinistro dovrà essere però considerato pari al 100% in tutti quei casi in cui le patologie pregresse di cui il danneggiato era portatore non gli impedivano di condurre una vita normale; c) sottraendo l’importo (b) dall’importo (a).
  7. resta imprescindibile il potere-dovere del giudice di ricorrere all’equità correttiva ove l’applicazione rigida del calcolo che precede conduca, per effetto della progressività delle tabelle, a risultati manifestamente iniqui per eccesso o per difetto.

La sentenza impugnata aveva fatto corretta applicazione di questi principi e pertanto è stata confermata.

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