Per la Cassazione non deve essere trascurata la rilevanza da attribuire al contesto in cui le frasi minacciose sono proferite, in ordine alla loro potenziale capacità ad incidere sulla libertà morale del soggetto passivo
Era accusato di aver proferito frasi minacciose (“comunque non finisce qui”) nei confronti di un altro uomo nonché di averlo afferrato per il collo, cagionandogli delle abrasioni, guaribili in 5-7 giorni. L’imputato era stato condannato in sede di merito alla pena di 450 euro di multa ai sensi degli articoli 582 e 612 del codice penale.
Nel ricorrere per cassazione, l’aggressore eccepiva, tra gli altri motivi, i vizi di violazione di legge e di motivazione in relazione all’art. 612 c.p. A suo giudizio, l’espressione “non finisce qui” non avrebbe integrato l’elemento oggettivo del reato di minaccia, essendo inidonea a generare timore nella vittima, dovendo questa essere letta all’interno del peculiare contesto in cui era stata pronunciata; nello specifico, considerate le pendenze giudiziarie tra le due parti, si sosteneva che in tale ottica la frase andasse interpretata come riferita al futuro esercizio di azioni giudiziarie.
Per la Suprema Corte, che si è pronunciata sul caso con la sentenza n. 9392/2020 il ricorso non merita accoglimento.
L’assunto difensivo – secondo il Giudici Ermellini – non poteva essere condiviso. Se è pur vero, infatti, che l’espressione “comunque non finisce qui” in sé non risulta avere una connotazione univocamente minacciosa, essendo pressoché neutra, ben potendo anche alludere ad un mero prosieguo delle attività di tutela dei propri diritti in sede giurisdizionale, tuttavia, nella fattispecie in esame, proprio per il contesto ed il momento nel quale era stata proferita (dopo l’aggressione), nonché per i toni e la cornice di riferimento, non poteva che intendersi come prospettazione di un’ulteriore attività aggressiva illegittima e, quindi, integrare il reato di minaccia.
La Cassazione ha ricordato come, in base alla giurisprudenza di legittimità, non debba essere trascurata la rilevanza da attribuire al contesto in cui le frasi sono proferite, in ordine alla loro potenziale capacità ad incidere sulla libertà morale del soggetto passivo. Nel caso in esame, il Collegio di appello aveva condivisibilmente ritenuto che il contesto contingente di violenza fisica e verbale avesse valorizzato univocamente in termini di minaccia l’espressione pronunciata dall’imputato nell’atto di allontanarsi dalla persona offesa.
Peraltro – chiariscono ancora dal Palazzaccio – ai fini dell’integrazione del delitto di cui all’art. 612 del codice penale, che costituisce reato di pericolo, la minaccia va valutata con criterio medio ed in relazione alle concrete circostanze del fatto, sicché non è necessario neppure che il soggetto passivo si sia sentito effettivamente intimidito, essendo sufficiente che la condotta dell’agente sia potenzialmente idonea ad incidere sulla libertà morale della vittima.
La redazione giuridica
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