A seguito dell’intervento di artroprotesi dell’anca destra si verifica la frattura dello stelo femorale con necessità di reintervento (Tribunale di Roma, Sez. III, Ordinanza ex art. 702 ter c.p.c., del 1/3/2021- RG n. 48666/2019 – Giudice Dott. Cisterna)

Con ricorso ex art. 8 legge 24/2017 la paziente promuoveva un Accertamento Tecnico Preventivo al fine di accertare la responsabilità dell’ortopedico per le lesioni subite in conseguenza della frattura dello stelo femorale protesico installato in occasione dell’intervento chirurgico di “artroprotesi di anca destra“ eseguito in data 20.10.2011 a seguito di una “ grave coxartrosi destra“.

L’intervento veniva eseguito in data 23.9.2011 per il costo di euro 21.860,00, ma malgrado la regolare esecuzione del ciclo riabilitativo, la paziente continuava ad avvertire forti dolori e aveva impedimenti funzionali.

In data 25.11.2015, la donna si sottoponeva a visita specialistica del posturologo che diagnosticava una “eterometria arto inferiore destro di 2 cm“.

Alla visita di controllo del marzo 2016 il Primario che aveva eseguito l’intervento, rilevava una abnorme mobilità della protesi di titanio dovuta, a suo dire, a riassorbimento osseo per osteopenia, laddove il referto dell’esame radiografico del bacino e dell’anca dx eseguito in data 9.3.2016 aveva evidenziato, invece, la intervenuta “frattura trasversale dello stelo femorale di artroprotesi d’anca destra“, con presenza in situ di piccoli frammenti metallici oltre alla presenza, altresì, di “artrosi in sede coxofemorale a sinistra“.

Il Primario, nulla comunicava e proponeva alla donna un immediato reintervento chirurgico di stabilizzazione della protesi.

In vista del prospettato reintervento chirurgico la paziente si rivolgeva in data 10.5.2016, ad altra Struttura che rilevava l’incombente pericolo di frattura ossea a causa della rottura dello stelo protesico, divenuto mobile all’interno del canale midollare, il grave deficit deambulatorio, l’accorciamento dell’arto inferiore destro di ben 3 cm, extrarotato e dolente alla rotazione e le veniva riferito che il decorso e gli esiti abnormi dell’intervento eseguito dal Primario fossero riconducibili ad una inesatta esecuzione della linea di resezione ossea femorale necessaria all’impianto dello stelo protesico ed alla insufficiente stabilizzazione dello stesso rischio osteoporotico correlato al sesso ed all’età. Onde la necessità di sottoporsi ad un nuovo intervento di “revisione dell’impianto protesico” e di seguire, poi, un percorso riabilitativo. Tale stato clinico veniva determinato dall’intervento eseguito nel 2011.

Il nuovo intervento chirurgico di “revisione protesica, neososteotonomia e cerchiaggio del femore” veniva eseguito in data 23.5.2016 da altro Professionista e ne seguiva una lunga convalescenza post-operatoria ed un ulteriore ricovero (dal 27.5.2016) presso un Centro di Riabilitazione Intensiva post-acuzie al fine di sottoporsi ad intenso trattamento fisiocinesiterapico e riabilitante.

Il secondo Medico, in occasione della visita di controllo del 19.6.2017 – pur riscontrando nella paziente un parziale recupero di autonomia nella deambulazione – constatava molteplici seri esiti invalidanti, conseguenti e connessi alla frattura dello stelo protesico d’anca impiantato nel 2011, in particolare: mancanza di forza muscolare, mai pienamente recuperata; deambulazione con una quota di extrarotazione dell’arto inferiore operato che ha peggiorato il valgismo del ginocchio e determinato un sovraccarico funzionale sulla articolazione tibio -tarsica; processo in atto di artrosi post-traumatica della caviglia; rachialgia costante tendente alla cronicizzazione per i sovraccarichi funzionali dovuti alla alterata deambulazione.

Successivamente, con ricorso ex art. 702 -bis c.p.c. la paziente, contestati i risultati della CTU svolta in Accertamento Tecnico Preventivo, invocava nuova CTU Medico-legale

Si costituisce in giudizio l’Ortopedico, contestando la responsabilità e chiamando in manleva la propria Compagnia Assicuratrice.

In particolare il Medico convenuto deduce che “a oggi, non vi era alcuno studio, pienamente condivisibile, che affermi la superiorità di una tipologia protesica rispetto ad un’altra, per un dato paziente ; che la letteratura scientifica internazionale aveva chiaramente affermato che la protesi cementata è gravata da una percentuale di mobilizzazioni asettiche superiori rispetto alla protesi non cementata o, quanto meno, sovrapponibili ed equivalenti, che l’età della paziente in esame non è e non può ritenersi un fattore discriminante in quanto le protesi non cementate hanno dimostrato la propria efficacia anche in pazienti più anziani; che l’osteoporosi (ammesso e non concesso che tale patologia fosse esistente e/o ipotizzabile all’atto del primo intervento e non vi è prova di ciò) non è una condizione che controindica l’utilizzo delle protesi non cementate, anzi, la diminuita massa ossea peggiora notevolmente qualora ci sia un’interfaccia cementata tra l’osso e la protesi ed, inoltre, è dimostrato che in pazienti di età sovrapponibile a quella dell’attrice all’atto del primo intervento chirurgico, affetti da artrite reumatoide (patologia caratterizzata proprio da una osteoporosi doppia rispetto al normale per età), le protesi non cementate sono caratterizzate da un rischio di complicanze inferiore ; che la cementazione è un atto intraoperatorio che non è scevro di complicanze immediate come l’embolia polmonare, l’aumento della pressione arteriosa, l’aumento della resistenza vascolare polmonare e la sofferenza cardiaca”.

Preliminarmente, il Tribunale rigetta l’istanza della paziente volta ad acquisire il dispositivo protesico espiantato e custodito, e quindi a disporre Consulenza Tecnica per “accertare eventuali difetti e/o vizi di produzione e/o altro che ne abbiano inficiato la corretta funzionalità”, a prescindere dalla circostanza che era in piena facoltà della parte curare l’allegazione agli atti del procedimento, sin dalla fase di ATP, del detto dispositivo al fine di rimetterlo all’esame dei CTU o del Giudice.

Al riguardo viene osservato che la prospettiva di un difetto congenito della protesi non era stata neppure presa in considerazione nella fase di ATP e che in nessun atto si prospettava tale difetto quale fattore causale del danno lamentato.

I CTP, invero, hanno condiviso le conclusioni dei CTU al riguardo, ritenendo di poter assecondare la tesi per cui sarebbe stata proprio l’esistenza di tale anomalia del dispositivo a far emergere la necessità del secondo intervento presso.

Sulla validità strutturale della protesi è stato osservato che “la stessa viene fornita (previamente testata sul piano biomeccanico) ed applicata con rispetto della massima sterilità. Trattasi, inoltre, nella specie non già di alterazioni macroscopiche del materiale protesico, bensì di verosimili microlesioni costitutive (in misura di frazioni di millimetro), non apprezzabili ispettivamente in fase di posizionamento dell’impianto”.

Quindi, già in fase di ATP, veniva rilevato che la valutazione dell’esistenza o meno di un tale difetto strutturale del dispositivo avrebbe dovuto svolgersi in contraddittorio con la ditta costruttrice e questo punto avrebbe richiesto adeguate iniziative processuali a cura di entrambe le parti interessate al giudizio.

Inoltre, la deduzione dei CTU sulla scelta di un materiale protesico rivelatosi inadatto o difettoso non esonerava le parti resistenti dalla necessità di evocare in giudizio, a fini di manleva, il fornitore della protesi poiché il range della responsabilità professionale si estende e ricomprende anche questo evento avverso dell’atto sanitario.

Difatti il CTP dei resistenti, osservava nella fase di ATP “che l’opzione per un materiale di sintesi inappropriato non esclude la responsabilità, ma piuttosto innesta una sequela che deve indurre il professionista a evocare in giudizio il produttore per essere tenuto indenne da responsabilità”.

I CTU hanno espresso tale giudizio in termini di alta e ragionevole probabilità, ma comunque è mancato un accertamento tecnico ad hoc che doveva essere provocato e richiesto dai resistenti.

Del resto, proprio dal tempo trascorso tra l’intervento di artroporesi (2011) e la visita specialistica (2015), che evidenziava “eterometria arto inferiore destro di 2 cm”, i CTU hanno assegnato alta probabilità alla tesi del vizio costruttivo, poiché una inadeguata esecuzione dell’intervento eseguito dall’Ortopedico convenuto avrebbe avuto più immediate e ravvicinate conseguenze.

La paziente afferma di aver sempre lamentato dolorabilità e difficoltà posturali, ma i CTU hanno escluso che in atti sussista documentazione medica che attesti un tale evento.

Quando l’Ortopedico nel 2015 riscontrava la mobilità della protesi nel sito osseo di allocazione, le dolenzie e le difficoltà deambulatorie si erano manifestate in modo evidente, ma nulla induce a ritenere che la causa della constata mobilità della protesi fosse l’errata esecuzione dell’intervento chirurgico.

In tal senso, anche il CTP, nelle osservazioni critiche alla CTU, non è stato in grado di giustificare in modo convincente sotto quale profilo l’intervento di artroprotesi del 20.11.2016 dovesse stimarsi erroneo. Lo stesso condivide il fatto che “la vicenda clinica ha un suo nucleo fisiomeccanico nella rottura dello stelo protesico” e assume che “fosse dovere dei CTU accertare se tale rottura fosse da imputare o meno a errori commessi nella conduzione operatoria”, ma contesta ai CTU di essere pervenuti “quasi per esclusione” a concludere per il difetto costruttivo.

Le argomentazioni del CTP appaiono ragionevoli e condivisibili mancando la concorrenza di tutti quei fattori causali che valgano a identificare un nesso apprezzabile tra la condotta del sanitario in sede operatoria e l’evento occorso a distanza di tempo.

I CTU riferiscono “la preliminare osteotomia femorale è stata condotta ad un livello inferiore rispetto a quanto abitualmente suggerito ed attuato; è stata imperfettamente allineata; ed è stata altresì insufficiente la preparazione del canale diafisario e che da queste originarie imprecisioni sarebbero in sequenza derivate la varizzazione del segmento coxale dell’arto, la lieve eterometria dell’arto e, infine, la mobilizzazione e il cedimento dello steso protesico per le conseguenti sollecitazioni dinamiche” ……..”l’assottigliamento della corticale femorale, rilevata in sede di reintervento, è coerente con la fresatura effettuata in fase di applicazione dello stelo protesico cementato. Non è stata, invece, individuata alcuna perforazione e/o frattura della corticale femorale che potesse essere correlata ad un malposizionamento dell’impianto, ovvero ad un’anomala mobilizzazione dello stelo protesico. Ancora una volta si ribadisce che nella specie alla rottura dello stelo protesico non è associata ad una frattura periprotesica diafisaria femorale, a significare che il difetto è insito nel materiale costitutivo dell’impianto, mentre la corticale ossea femorale (benché strutturalmente meno resistente rispetto al metallo) rimane persistentemente integra – L’integrità del tessuto osseo femorale e la valida osteointegrazione protesica, trovano, inoltre, conferma nelle difficoltà riscontrate in corso di intervento di revisione, in cui si è resa necessaria la “fenestrazione” del femore per la rimozione dello stelo”.

Riguardo la quantificazione del danno non patrimoniale della paziente vengono prese a riferimento le valutazioni espresse dai CTU che hanno individuato il maggior danno, individuato nella necessità di procedere alla rimozione della protesi per la rottura dello stelo diafisario e all’intervento di revisione dell’impianto protesico.

Tali valutazioni vengono emendate dal punto di visto medico -legale e giuridico dal Tribunale in quanto i CTU hanno concluso per l’assenza di responsabilità da parte del Medico convenuto.

Si legge nell’elaborato peritale: “La rottura meccanica dello stelo protesico costituisce indicazione chirurgica corretta e non procrastinabile ad intervento di riprotesizzazione. L’intervento di revisione protesica comporta di per sé una maggiore complessità procedurale e tecnico-esecutiva, in rapporto alla necessità di rimozione e sostituzione di componenti protesiche almeno in parte osteointegrate. Il risultato clinico attuale, stanti le citate difficoltà tecniche del pur necessario intervento di revisione protesica, è – infatti – evidentemente inferiore rispetto a quello prevedibilmente atteso se il primo impianto fosse stato definitivo e, quindi, se non si fosse verificata la rottura dello stelo protesico. In particolare, proprio per la complessità insita nella procedura di revisione protesica, non è stato verosimilmente possibile eseguire il posizionamento della protesi nel rispetto dei normali assi di rotazione, con conseguente lieve extrarotazione residua dell’arto. I reliquati anatomo -disfunzionali attualmente apprezzabili sono rappresentati da un atteggiamento in extrarotazione di circa 20° dell’arto di destra nella deambulazione associato a persistente coxalgia, modesta limitazione articolare coxo – femorale e lieve ipotonomiotrofia della muscolatura attivatrice dell’arto. In risposta alla richiesta formulata dal Patrocinatore di parte attrice, relativamente alla quantificazione del danno, si precisa che i postumi anatomodisfunzionali rilevati, non risultando ascrivibili ad errore della condotta professionale, non configurano un “maggior danno” di rilievo ai fini della presente indagine. Volendo, comunque, precisare l’entità dell’attuale menomazione, in termini di aggravamento rispetto ad analoga fattispecie con normale decorso, è possibile seguire il seguente iter metodologico -argomentativo medico -legale. Secondo il baréme valutativo della SIMLA (Ed. 2016), gli esiti di un trattamento di protesi d’anca con normale decorso (I a classe) possono quantificarsi in misura orientativamente pari al 18%. In altri termini, qualora l’intervento di artroprotesi d’anca non avesse avuto decorso complicato, sarebbero comunque residuati esiti invalidanti a carico dell’articolazione coxofemorale, quantificabili nell’ordine di circa il 18%. La condizione menomativa attuale a carico dell’articolazione coxo -femorale, sempre secondo il baréme valutativo della SIMLA, è collocabile in una II a classe di invalidità, con percentuale di invalidità pari al 25%. Ne consegue che, gli effetti anatomo -disfunzionali attuali di aggravamento del danno, rispetto ad analoga fattispecie con normale trattamento e decorso, con riferimento alle tabelle valutative della SIMLA, risultano valutabili in misura pari al 7%”.

Ebbene, le lesioni policrone coesistenti, vengono liquidate utilizzando le Tabelle romane, tenuto conto del calcolo differenziale dell’invalidità (25% -18%) si perviene al risultato di euro 29.615,17 per IP differenziale del 7%, oltre ITA di giorni 30 a euro 110.60 pro/die = euro 3.318,00, ITT al 50% per giorni 60 a euro 55.30 pro/die = euro 1.659,00 per complessivi euro 34.592,17 a titolo di danno dinamico –relazionale.

A tale importo viene aggiunto il danno morale soggettivo (la sofferenza fisica, il disagio e i patemi che sono conseguiti alla paziente in relazione al verificarsi della mobilizzazione della protesi e del secondo intervento), che viene liquidato equitativamente attraverso l’aumento del 20% del danno biologico, pervenendosi così all’importo definitivo di euro 41.510,60, oltre lucro cessante e interessi.

Riguardo le spese sostenute dalla paziente, indicati dai CTU in complessivi euro 12.320,98 (poltroncina montascale e relative manutenzioni), il Tribunale le riconosce pro-quota sulla scorta della ritenuta percentuale di maggior danno del 7% su un complessivo 25% che ha reso necessarie la totalità delle spese in questione.

Equitativamente, tale importo viene stimato in euro 4.000,00, corrispondente a circa un terzo dell’ammontare delle spese complessivamente sostenute e documentate.

Infine, non avendo la paziente formulato espressa domanda di risoluzione del contratto di spedalità intercorso con i convenuti, viene esclusa la restituzione delle somme corrisposte per il primo intervento.

I convenuti vengono condannati, inoltre, al pagamento delle spese di ATP che vengono liquidate in euro 2.910,00 e al pagamento delle spese del giudizio di merito che vengono liquidate in euro 7.254,00.

Avv. Emanuela Foligno

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