Respinto il ricorso di una Asl condannata a risarcire gli eredi di un dipendente morto di malattia conseguente al fumo passivo inalato sul luogo di lavoro

Vanno risarciti i danni agli eredi di un dipendente morto a seguito di una malattia conseguente al fumo passivo nel luogo di lavoro, anche se all’epoca dei fatti non era ancora entrata in vigore la legge Sirchia sul divieto assoluto di fumo nei locali chiusi.

Lo sottolinea la Cassazione nella sentenza n. 21287/2019, affermando che, in presenza di “eventi lesivi verificatesi in pregiudizio del lavoratore e casualmente ricollegabili alla nocività dell’ambiente di lavoro” l’articolo 2087 del codice civile in materia di sicurezza sul lavoro “impone al datore di lavoro, anche dove faccia difetto una specifica misura preventiva, di adottare comunque le misure generiche di prudenza e diligenza, nonché tutte le cautele necessarie, secondo le norme tecniche e di esperienza, a tutelare l’integrità fisica del lavoratore assicurato”.

Il caso esaminato riguardava l’istanza di risarcimento presentata dai familiari di un dipendente di un’azienda sanitaria, morto nel 2002 dopo due anni di malattia. L’uomo lavorava in un ufficio di “dimensioni ridotte” con due colleghi “entrambi fumatori”, reso “insalubre” anche dalla presenza di fotocopiatrici, nonché attiguo a un centro di radiologia.

L’azienda datrice di lavoro, dopo essere stata condannata in appello a risarcire il danno, aveva presentato ricorso in Cassazione nel quale osservava che “le conoscenze scientifiche, al tempo dei fatti di causa, non erano tali da mettere in guardia i fumatori sui danni alla salute connessi al cosiddetto ‘fumo passivo'” e che erano state adottate “tutte le misure di prevenzione, diligenza e prudenza e le dovute cautele secondo le norme tecniche e di esperienza vigenti all’epoca, che non ponevano alcuna restrizione imperativa e tassativa in materia di fumo”.

L’Asl lamentava che la legge risalente al 1975 poneva divieti di fumo “in luoghi contemplati in un elenco tassativo”. Tra questi, ad esempio, le “corsie degli ospedali”. Pertanto, secondo la ricorrente, non era applicabile “un’estensione normativa della disposizione, essendo peraltro la previsione collegata a possibile rischio incendi e a una cognizione del nesso causale tra fumo passivo e insorgenza di patologie professionali che escludeva la patologie tumorali”.

Ma la Suprema Corte ha ritenuto di non aderire alle argomentazioni proposte, rigettando il ricorso. “Non può dubitarsi – scrivono i Giudici Ermellini – della correttezza delle argomentazioni spese dalla Corte del merito con riferimento ad una situazione di accertata azione del fumo passivo in ambiente inidoneo allo svolgimento di attività lavorativa senza rischi per la salute dei lavoratori, al di là della introduzione di specifiche norme contenenti divieti di fumo in ambienti diversi da quelli indicati nella normativa del 1975 e del 1994, posto che doveva ritenersi pacifica, specie da parte di una struttura sanitaria, la conoscenza dei rischi del fumo e dei raggi degli apparecchi esistenti nel locale contiguo adibito ad esami radiologici”.

L’esposizione al fumo dei colleghi di lavoro, conclude la Corte, “non è stata impedita con efficace predisposizione di misure preventive da parte del datore di lavoro”.

Leggi anche:

COSTRETTO A LAVORARE IN LOCALI SATURI DI FUMO: RISARCITO DIPENDENTE DELLE POSTE

- Annuncio pubblicitario -

LASCIA UN COMMENTO O RACCONTACI LA TUA STORIA

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui