L’indagato si è avvalso della facoltà di non rispondere”: qual è il valore probatorio che l’ordinamento riconosce al silenzio dell’indagato?

Per i giudici della Terza Sezione Penale della Cassazione (sentenza n. 43254/2019) il silenzio dell’indagato in sede di interrogatorio non può essere utilizzato quale elemento di prova a suo carico, ma da tale comportamento processuale il giudice può comunque trarre argomenti utili per la valutazione delle circostanze “aliunde” acquisite, senza che, naturalmente, ciò possa determinare alcun sovvertimento dell’onere probatorio .

Nel caso esaminato, la Corte di appello di Cagliari aveva condannato l’imputato alla pena ritenuta di giustizia per aver compiuto atti sessuali con una minorenne.

Contro tale sentenza l’uomo aveva proposto ricorso per cassazione, lamentando tra gli altri motivi, l’inosservanza e l’erronea applicazione delle legge penale nonchè la manifesta illogicità della motivazione relativamente all’utilizzo delle sue dichiarazioni.

In particolare, secondo la difesa i giudici del merito non avrebbero potuto valorizzare il silenzio dell’indagato, durante il proprio esame, su alcune domande (in particolare quelle relative ai rapporti con la minorenne).

Ebbene, la Corte di Cassazione (Terza Sezione Penale, sentenza n. 43254/2019) dopo aver confermato il giudizio espresso dalla corte di merito in ordine alla attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa, ha rigettato il motivo di ricorso in quanto inammissibile.

La Corte ha chiarito che la sentenza impugnata non aveva certamente ritenuto provate le frequentazioni dell’imputato con la minore (valorizzate, come già detto, ad indiretto riscontro delle dichiarazioni della persona offesa) sulla base della sua mancata risposta a domande sul punto, ma in forza dell’inequivocabile contenuto di intercettazioni telefoniche agli atti.

Una utilizzazione sfavorevole del silenzio dell’imputato era stata semmai fatta dalla sentenza impugnata in relazione alla mancata risposta alla richiesta di spiegazioni circa le ragioni per le quali tra lo stesso e la persona offesa fossero intercorsi migliaia di contatti telefonici.

In proposito la giurisprudenza della Suprema Corte ha più volte affermato che il silenzio serbato dall’indagato in sede di interrogatorio non può essere utilizzato quale elemento di prova a suo carico, ma da tale comportamento processuale il giudice può comunque trarre argomenti utili per la valutazione delle circostanze “aliunde” acquisite, senza che, naturalmente, ciò possa determinare alcun sovvertimento dell’onere probatorio (tra le altre, Sez. 2, n. 6348 del 28/01/2015; Sez. 1, n. 2653 del 26/10/2011; Sez. 2, n. 22651 del 21/04/2010). Si è anche, di recente, precisato, anche richiamando la posizione presa al riguardo dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo (sent. 08/02/1996, Murray c. Regno Unito), che il silenzio dell’imputato, se in partenza costituisce un dato processualmente neutro, può nondimeno assumere anche un più significativo rilievo, in misura direttamente proporzionale alla solidità degli elementi di accusa, che in ipotesi risultino privi di idonea spiegazione (Sez. 6, n. 28008 del 19/06/2019; Sez. 6, n. 40347 del 02/07/2018).

La decisione

E, nella specie, nessuna violazione di un tale principio era stata posta in essere dal momento che, come già visto, la sentenza non aveva assunto la mancata spiegazione fornita dall’imputato a prova della sua responsabilità, che come già detto, era fondata su ben altri presupposti, tra cui, innanzitutto, le dichiarazioni della persona offesa.

In definitiva il ricorso è stato dichiarato inammissibile, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

La redazione giuridica

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