Non è stata accolta la domanda di risarcimento danni per mobbing proposta da un impiegato di banca contro la società datrice di lavoro: decisiva l’insussistenza del requisito psichico del c.d. animus nocendi, ossia l’intendimento persecutorio del datore di lavoro
La vicenda
Un impiegato di banca con la qualifica di vice capufficio e mansioni di cassiere terminalista, aveva citato in giudizio dinanzi al Tribunale di Siracusa, la sua datrice di lavoro lamentando di essere stato da diverso tempo oggetto di un comportamento fortemente vessatorio da parte di dirigenti e di qualche collega; in particolare dichiarava di essere stato scavalcato nella promozione a capoufficio da colleghi molto più giovani di età e con minore anzianità di servizio nonché con minore professionalità e di essere stato vittima di continui distacchi e/o brevi trasferimenti e missioni senza alcuna causa ragione o motivo di natura organizzativa; senza contare delle aggressioni psicologiche, di cui era stato vittima, consistite in futili contestazioni disciplinari, rimaste poi inattuate.
Tali comportamenti gli avevano procurato una malattia psicofisica concretizzatasi in ansia, insonnia e disturbi depressivi, per cui chiedeva la condanna della società convenuta al pagamento della somma di 60.000 euro a titolo di risarcimento dei danni fisici, psichici e morali subiti.
Entrambi i giudizi di merito si concludevano con il rigetto della domanda attorea. Da ultimo si sono pronunciati i giudici della Sezione Lavoro della Cassazione con l’ordinanza n. 32381/2019 in commento.
Per quanto concerne l’art. 2087 c.c. (disposizione di carattere generale, la quale disciplina la tutela delle condizioni di lavoro) – hanno chiarito gli Ermellini – “tale norma non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro – di natura contrattuale – va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento, sicché incombe sul lavoratore ex art. 2697 c.c., comma 1 – che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute – l’onere di provare, oltre all’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’una e l’altra, e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova sussiste – ex art. 2697, comma 2 – il datore di lavoro dovrà provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi (cfr. Cass. lav. n. 24742 in data 8/10/2018 ed altre conformi)”.
Ebbene, nel caso in esame la corte d’Appello, aveva motivatamente disatteso le doglianze difensive alla luce delle acquisite risultanze istruttorie; a tal fine aveva evidenziato, con apprezzamento di fatto insindacabile in sede di legittimità, l’insussistenza di fondati elementi tali da poter ravvisare in concreto il denunciato mobbing, mancando il necessario requisito psichico del c.d. animus nocendi, ossia l’intendimento persecutorio del datore di lavoro.
Il mobbing
La giurisprudenza di legittimità (Cass. lav. n. 17698 del 06/08/2014) ha più volte chiarito che ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono ricorrere: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psicofisica e/o nella propria dignità; d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi.
In definitiva, la Corte ha rigettato il ricorso e condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Avv. Sabrina Caporale
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