Linee guida e loro importanza secondo la Sezione penale (Cassazione penale, sez. IV, 04/03/2022, n.7849).

Linee guida e importanza della relativa applicazione in relazione a un caso di omicidio colposo contestato al Sanitario.

La Corte d’appello di Torino ha confermato la condanna emessa dal Tribunale di Cuneo alla pena ritenuta di giustizia e alle connesse statuizioni civili in solido con il responsabile civile Azienda Sanitaria Locale, in relazione al delitto di omicidio colposo.

I fatti si collocano presso il reparto di ostetrica e ginecologia dell’Ospedale ove nelle prime ore della mattina la donna si è ricoverata per partorire. Il parto avviene alle 10,24, senza particolari problemi; alle 11.10 viene praticata un’iniezione di ossitocina alla puerpera, onde favorire l’espulsione della placenta; poiché però alle 11.20 la placenta non è ancora uscita, la Ginecologa e l’Ostetrica iniziano ad eseguire sulla paziente due “spremiture alla Crede”; nonostante ciò, permanendo il mancato secondamento, alle 11.30 la Ginecologa formula  diagnosi di “sospetta inversione del fondo uterino” e chiede l’intervento del collega; questi, eseguita un’ecografia, alle 11.40 conferma la diagnosi, attesta una “persistenza di perdite ematiche” e chiama un anestesista per narcotizzare la paziente, quindi completa l’estrazione della placenta con l’ausilio di una pinza tamponata e tenta manualmente di ricollocare l’utero in situ; alle 11.50 giunge l’anestesista che constata lo stato di incoscienza della donna (la cui pressione è bassissima, 70/40), procede alla sedazione e somministra alla paziente due sacche di sangue O negativo, chiedendo inoltre al centro trasfusionale altre quattro sacche e plasma. Il marito, che era rimasto presente fino a quel momento, viene fatto allontanare. Alle 12.05 viene chiamata la ginecologa che ha seguito la gravidanza della donna; costei, assieme ad altro Medico, tenta di arginare l’emorragia e di interrompere la forza oppositrice dell’inversione uterina inserendo un “palloncino di Cook o di Bakri”, ottenendo però un beneficio di breve durata; nel frattempo viene allertata la sala operatoria. Alle 12.45 la paziente, intubata, è portata in sala operatoria per essere sottoposta a isterectomia totale; alle 12.50, essendo nel frattempo sopraggiunto altro Medico, viene iniziata l’operazione. Alle 13.40, a intervento quasi ultimato, viene constatato l’arresto cardiaco e, nonostante i tentativi di rianimare la paziente, costei muore alle 14.46.

Dopo aver premesso che le linee guida considerate nel giudizio, sebbene successive all’evento, sono basate su leges artis già valide in quella data, la Corte ha riassunto, in un’ampia narrativa, i contenuti salienti della sentenza di primo grado.

Invero, il Tribunale cuneese aveva constatato il mancato raggiungimento della prova che le manovre ginecologiche eseguite (le c.d. spremiture alla Crede’) fossero state praticate in modo improprio ed eccessivamente energico; di contro, si era ritenuto che l’isterectomia fosse stata praticata con eccessivo ritardo (con inizio alle 12.50) rispetto al momento in cui era stata accertata l’inversione del fondo uterino (11.30/11.40), date le condizioni in cui versava la paziente. Il ritardo, secondo il Tribunale, aveva avuto rilevanza eziologica sul decesso in quanto l’inversione uterina aveva provocato una massiva emorragia, dalla quale era derivato poi uno shock emorragico risultato fatale. Perciò la morte della paziente veniva ascritta alle due Ginecologhe e al Chirurgo, ritenuti responsabili del ritardo nell’esecuzione dell’isterectomia; mentre veniva esclusa al riguardo qualsiasi responsabilità dell’Ostetrica.

Nel giudizio di secondo grado veniva disposta ulteriore CTU che evidenziava negligenze e imprudenze nella fase del secondamento, tra cui ad esempio l’applicazione della ventosa “di compiacenza” per accelerare il parto, ciò che avrebbe reso necessario un management attivo del secondamento (trazione controllata del funicolo, somministrazione di uterotonici) più tempestivo rispetto a quanto fatto in concreto; tali negligenze e imprudenze, secondo i periti, predisposero all’insorgenza della CID (coagulopatia intravascolare disseminata), che rese inefficaci le cure rianimatorie e chirurgiche praticate alla paziente, sebbene i Periti non siano stati in grado di precisare se un approccio chirurgico più tempestivo avrebbe potuto evitare l’evoluzione letale.

La Corte territoriale, poi, illustra la questione delle linee guida, definite in generale come raccomandazioni e che non possono qualificarsi come regole cautelari a contenuto precettivo, non potendosi perciò porre un problema di determinatezza.

Al riguardo, mentre gli imputati hanno dichiarato di aver seguito le linee guida Linea 26 (revisione di linee guida pubblicate in precedenza), il responsabile civile ASL ha indicato le linee guida AGENAS del 2004, rispetto alla quale però, secondo la Corte di merito, gli imputati si sarebbero comunque discostati in diverse parti.

Sotto il profilo della colpa, la Corte di merito aderisce alla tesi dei Consulenti secondo la quale non fu fatto ricorso al management attivo del secondamento (e si attese il secondamento naturale per 40 minuti), pur a fronte dell’accertata atonia dell’utero, che è all’origine delle complicanze successive e che indusse la Ginecologa a praticare un’iniezione di ossitocina solo alle 11.10: condotta, questa, censurata anche per le modalità e i quantitativi impiegati, inidonei a ottenere lo scopo perseguito (l’espulsione della placenta).

Ulteriore profilo di colpa viene indicato nella tardività delle manovre di Crede’, che dovevano essere eseguite nella prima mezz’ora dopo il parto, nell’ambito del c.d. management attivo e la cui tardività si tradusse – unitamente, forse, alle modalità esecutive – in un fattore di rischio per l’inversione uterina, stante anche il fatto che la paziente era primipara.

Anche l’esecuzione delle suddette manovre senza copertura analgesica è stata censurata in relazione allo shock che esse determinarono sulla paziente.

Nessuna delle condotte anzidette, conclude la Corte di merito, è rapportabile alle raccomandazioni delle Linee Guida 26, né alle altre linee guida di riferimento, che risultano anzi tutte disattese; perciò non si è posto il problema di valutare il grado della colpa, peraltro stimato come grave.

Sul piano causale la Corte ha ritenuto che le improprie condotte sia omissive che commissive, indicate dai periti e distoniche rispetto alle indicazioni delle linee guida, determinarono pacificamente l’insorgenza progressiva di una situazione divenuta non più recuperabile dopo oltre un’ora e mezza dal parto.

La controversia approda in Cassazione, ove, in sintesi, viene lamentato il profilo della qualificabilità, o meno, delle linee guida come “regole cautelari”, alla stregua delle valutazioni formulate sul punto dalla Corte territoriale.

Gli Ermellini rammentano che nell’ambito del procedimento penale, per l’indicazione della condotta doverosa in campo sanitario, si pone la necessità di ricercare le leges artis che contengono le raccomandazioni operative, per i sanitari, in relazione alle diverse tipologie di attività a loro affidate e di cui dev’essere anche valutata la pertinenza in relazione al singolo caso concreto.

In definitiva, viene in larga parte affidata al contributo di esperienza e di sapere scientifico di soggetti qualificati l’indicazione, nei singoli casi concreti, del c.d. comportamento alternativo diligente che il sanitario avrebbe dovuto tenere nelle medesime condizioni.

Lo strumento per definire in modo (per quanto possibile) omogeneo i criteri comportamentali dei sanitari nelle diverse situazioni è costituito da previsioni a carattere generale (ancorché talora molto articolate e minuziose) elaborate a livello scientifico e/o operativo, variamente definite e caratterizzate: ossia, a seconda dei casi, dalle linee guida, dai protocolli e dalle “best practices”.

Nell’esperienza italiana, le linee guida sono qualificate come raccomandazioni di ordine generale, rispetto alle quali tuttavia resta salva la libertà di scelta professionale (e la responsabilità) del sanitario nel rapportarsi al caso concreto, nelle sue molteplici varianti e peculiarità e nel rispetto della c.d. “relazione terapeutica” (o, come altri dice, “alleanza terapeutica”) tra medico e paziente.

Di qui la natura delle linee guida come regole di massima flessibili e adattabili alle specificità del caso concreto.

Anche per questo, l’approccio giurisprudenziale tradizionale si è sempre mostrato tendenzialmente cauto: la Suprema Corte si esprime da tempo nel senso di non considerare le linee-guida come idonee a esaurire le regole di condotta sanitaria in rapporto a ogni singolo caso concreto.

Ed ancora, nel praticare la professione sanitaria, “il medico deve, con scienza e coscienza, perseguire un unico fine: la cura del malato utilizzando i presidi diagnostici e terapeutici di cui al tempo dispone la scienza medica, senza farsi condizionare da esigenze di diversa natura, da disposizioni, considerazioni, valutazioni, direttive che non siano pertinenti rispetto ai compiti affidatigli dalla legge ed alle conseguenti relative responsabilità”.

In altri termini, il rispetto delle linee guida non può essere univocamente assunto quale parametro di riferimento della legittimità e di valutazione della condotta del medico; e quindi “nulla può aggiungere o togliere al diritto del malato di ottenere le prestazioni mediche più appropriate né all’autonomia ed alla responsabilità del medico nella cura del paziente”.

In conclusione, “non può dirsi esclusa la responsabilità colposa del medico in riguardo all’evento lesivo occorso al paziente per il solo fatto che abbia rispettato le linee guida, comunque elaborate, avendo il dovere di curare utilizzando i presidi diagnostici e terapeutici di cui al tempo la scienza medica dispone” (così si esprimeva Sez. 4, n. 8254 del 23/11/2010 – dep. 2011, Grassini).

Avv. Emanuela Foligno

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