La drammatica vicenda trae origine da un incendio nel campo nomadi di Roma allestito dal Comune che il 2/12/2006 ha causato la morte di due ragazzi.
L’indagine penale aveva accertato che l’incendio nel campo nomadi era stato determinato “dalla cattiva cura ed uso degli impianti elettrici ed antincendio, oltre che dagli interventi edilizi posticci, che erano stati realizzati con impiego di materiale altamente infiammabile” e che i due ragazzini sono deceduti “a seguito di una progressiva intossicazione da monossido di carbonio” (e, in particolare, a seguito delle esalazioni, dovute ai fumi dell’incendio che si è sprigionato nella veranda abusiva, e successivamente dell’azione delle fiamme).
Il processo per risarcimento danni
I congiunti dei due ragazzini convenivano in giudizio davanti al Tribunale di Roma il Comune per ottenere il risarcimento dei danni patiti a causa del decesso in forza dei risultati dell’indagine penale che delineava una responsabilità di apparato in capo al Comune di Roma per omessa vigilanza sulle condizioni di sicurezza e sui dispositivi antincendio all’interno del campo nomadi.
Gli attori sostengono che la responsabilità invocata si fonderebbe nell’art. 2053 c.c., essendo il Comune di Roma proprietario dell’area ove si trovava ubicato il campo nomadi, nonché nell’art. 2051 c.c., avendo il Comune assunto obblighi di custodia per effetto della consegna alla comunità Rom di “una struttura attrezzata con moduli abitativi e ogni genere di complemento necessario ad una civile convivenza, ivi compreso l’impianto antincendio”, della quale aveva mantenuto “per di più la gestione, in forza peraltro di delibere comunali”.
In sintesi, sempre secondo gli attori, poiché l’ente comunale aveva “consegnato un campo attrezzato, ivi compreso l’impianto antincendio, salvo poi omettere ogni controllo periodico circa la funzionalità del sistema”, doveva essere dichiarata la responsabilità contrattuale e/o extracontrattuale esclusiva o concorrente del Comune e del Municipio, ciascuno secondo le proprie competenze per l’evento mortale.
Il Tribunale di Roma (sent. n. 14024/2015) rigettava la domanda attorea, compensando tra le parti le spese processuali. Successivamente, la Corte d’Appello di Roma (sent. n. 4980/2020), condannava Roma Capitale al pagamento della somma di oltre 500.000,00 euro a titolo di ristoro per il decesso dei due ragazzi.
I giudizi di merito
La questione arriva in Cassazione che, preliminarmente, riassume le due decisioni di merito.
- A) In particolare, il primo grado concludeva che l’Amministrazione non si era fatta carico della vigilanza e della gestione tecnica della struttura, in specie dell’impianto di prevenzione degli incendi, risultando invece affidata alla responsabilità della comunità, che ne aveva la disponibilità di fatto in base ad una posizione giuridica ben definita nel Regolamento contrattuale di concessione di utilizzo.
- B) Sempre con riferimento al rapporto di custodia, ma sotto altro profilo, il primo grado concludeva che il gruppo Rom, “quale detentore delle singole unità abitative a titolo di comodato e in forza degli impegni espressi assunti negli atti di regolamentazione della struttura complessiva, aveva la disponibilità piena ed effettiva del campo di cui trattasi e che, coerentemente, ne erano custodi anche in ordine alla vigilanza e manutenzione sull’efficienza degli impianti”, ragion per cui “non (era) stata l’inerzia e l’omessa vigilanza del comune di Roma a determinare la situazione di fatto da cui è promanato l’incendio letale, ma quella della comunità Rom a fronte delle inerzie e delle condotte vandaliche attribuibili ai suoi stessi componenti”.
La Corte di appello:
- A) dopo aver affermato che sul custode-proprietario incombe l’onere della manutenzione degli impianti (nella fattispecie quello elettrico e quello antincendio), obbligo che non viene meno nell’ipotesi di uso non corretto dei medesimi ad opera del conduttore, che in tale caso concorre quale responsabile dell’evento dannoso che ne derivi, ha concluso per “la pari responsabilità del proprietario dell’area destinata a campo Rom e dei suoi occupanti (qui intesi come terzi non individuati)”; mentre non ha ravvisato “elementi di colpa direttamente imputabili alle vittime che occupavano il manufatto”.
- B) Sotto il profilo del nesso causale, la corte territoriale ha affermato che “l’interruzione del nesso causale tra condotta ed evento può configurarsi solo quando la causa sopravvenuta innesca un rischio nuovo e del tutto eccentrico rispetto a quello originario attivato dalla prima condotta”, ed è pervenuta alla conclusione “che il ritardo col quale sia intervenuto il soccorso (nella fattispecie l’intervento dei vigili del fuoco) non determina l’interruzione del nesso causale innescato dall’originario fatto dannoso (l’incendio dovuto alla cattiva cura ed uso degli impianti elettrico ed antincendio, oltreché agli interventi “edilizi” posticci con impiego di materiale facilmente infiammabile).
- C) In definitiva, secondo l’appello, “la mancata previsione nel regolamento comunale di specifici compiti di custodia, in capo all’ente, dell’area pubblica in questione, non solleva il proprietario dai doveri di custodia che gli sono assegnati direttamente dalla legge. L’eventuale concorso di terzi ai quali tali compiti di custodia fossero stati delegati col regolamento non libera il proprietario dalla sua responsabilità, tanto più se la delega sia intervenuta senza alcuna verifica delle capacità tecniche ed economiche del delegato alla vigilanza sugli impianti del campo”.
Il vaglio della Cassazione
Ciò riepilogato per logica espositiva, le prime due doglianze svolte dal Comune di Roma sono ritenute fondate dalla Cassazione (Cassazione civile, sez. III, 24/07/2024, n.20638).
Il Comune lamenta di essere stato individuato custode del campo nomadi in quanto la corretta interpretazione degli articoli 2051 e 2053 c.c., avrebbe imposto di escludere la responsabilità poiché l’incendio nel campo nomadi non era derivato dagli impianti (elettrico e antincendio) messi a disposizione, bensì era scaturito dalla veranda realizzata abusivamente dai Rom e dalla stufa elettrica abusivamente allacciata il cui uso era stato addirittura vietato dal regolamento del campo.
Evidenzia, inoltre, che grava sul solo conduttore la responsabilità per i danni provocati a terzi dagli accessori e dalle altre parti dell’immobile che sono acquisiti alla sua disponibilità. L’incendio che aveva causato la morte dei due ragazzi rom non era derivato né dalle strutture murarie, né da impianti in esse conglobati.
Con la seconda censura evidenzia violazione del regolamento per i campi sosta attrezzati destinati alle popolazioni Rom approvato con Delibera C.C. n. 117 del 3/06/1993. In definitiva, contrariamente a quanto stabilito dalla Corte d’Appello, l’obbligo di custodia del campo ricadeva sulle famiglie rom sulla base, oltre che delle ordinarie regole di diritto relative ai negozi giuridici della locazione e il comodato, anche e soprattutto sulla base degli specifici atti sottoscritti da entrambe le parti.
Le due censure sono corrette
La Corte territoriale esordisce dicendo che ha ritenuto necessario, per risolvere la controversia, mantenere inalterati i dati di fatto così come accertati in primo grado; ma poi applica principi in forza dei quali al proprietario dell’immobile locato sono riconducibili in via esclusiva i danni arrecati a terzi dalle strutture murarie e dagli impianti in essa conglobati, di cui conserva la custodia anche dopo la locazione, mentre grava sul solo conduttore la responsabilità per i danni provocati a terzi dagli accessori e dalle altre parti dell’immobile, ad una fattispecie nella quale nel giudizio di primo grado era emerso che:
a) l’impianto elettrico era originariamente conforme alle regole tecniche.
b) presso la unità container, che aveva preso fuoco, erano state rilevate le tracce della preesistente struttura lignea abusiva (una veranda).
c) le utenze erano risultate sovraccariche.
Inoltre, la Corte di Roma afferma (apoditticamente sostiene la Cassazione) la responsabilità del Comune nella sua veste di proprietario di custode degli impianti conglobati, sull’implicito presupposto che la morte dei due minori sia derivata dall’omessa manutenzione degli impianti (sia elettrico che del sistema antincendio), il tutto “inalterati i dati di fatto così come accertati in prime cure”.
La motivazione resa è inidonea a svolgere la funzione che deve svolgere una sentenza di grado di appello che riformi una sentenza di primo grado.
La sentenza di appello non solo deve contenere una propria motivazione, delle ragioni di censura della soluzione della vicenda, ma deve contenere una motivazione “rafforzata” che dia puntuale ragione delle difformi conclusioni assunte e confuti specificatamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato.
La Corte non si è attenuta a tali principi, quindi, sicché si tratta di una motivazione apparente, che è anche contraddittoria in relazione all’innesco dell’incendio perché viene affermato sia che non vi erano anomalie nell’impianto elettrico, sia che vi era stato un sovraccarico delle utenze, dimenticando che il sovraccarico è già di per sé una anomalia.
Conclusivamente, la decisione viene cassata e la Corte del rinvio dovrà rendere una motivazione intellegibile sui proposti appelli, evidenziando le ragioni dell’eventuale dissenso dalla sentenza di primo grado, sulla base delle ragioni dell’appello stesso.
Avv. Emanuela Foligno