Indennità di maternità erogata in misura inferiore al dovuto: è discriminazione

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indennità di maternità

Costituisce condotta discriminatoria ogni trattamento deteriore o che determini la compressione o la negazione di un diritto in ragione della condizione di madre, come l’erogazione dell’indennità di maternità in misura inferiore al dovuto

La vicenda

Il Tribunale di Ferrara aveva dichiarato discriminatorio – in ragione dello stato di gravidanza o di maternità – il comportamento tenuto dall’INPS, consistito nell’aver erogato ad una lavoratrice con qualifica di assistente di volo, un’indennità di maternità in misura inferiore al dovuto (a causa del mancato computo dell’indennità di volo in misura intera nel calcolo della retribuzione media globale); aveva, pertanto, ordinato la cessazione del comportamento e la condanna dell’Ente a corrispondere alla lavoratrice la somma di 17.945,41 euro oltre interessi.

Contro tale provvedimento l’INPS ha proposto opposizione contestando la valutazione effettuata dal Tribunale, e sostenendo che la liquidazione della prestazione in misura inferiore a quella (ritenuta) dovuta non potesse qualificarsi come condotta discriminatoria “in ragione dello stato di gravidanza o di maternità”, posto che tale giudizio era avvenuto soltanto a posteriori, dopo che l’indennità era stata percepita senza che l’interessata avesse sollevato alcuna critica.

Secondo la lavoratrice, invece, l’illegittima decurtazione dell’indennità di maternità non le avrebbe garantito il tenore di vita analogo a quello goduto in precedenza, compromettendo così potenzialmente lo svolgimento delle funzioni familiari e genitoriali.

Il riferimento normativo

In primo luogo, il Tribunale di Ferrara ha cominciato con l’analizzare le fonti normative già citate nel decreto opposto.

Il considerando 23 della direttiva 2006/54 così recita: “(23) Dalla giurisprudenza della Corte di giustizia risulta chiaramente che qualsiasi trattamento sfavorevole nei confronti della donna in relazione alla gravidanza o alla maternità costituisce una discriminazione diretta fondata sul sesso. Pertanto, occorre includere esplicitamente tale trattamento nella presente direttiva.

Inoltre, secondo l’art. 2, paragrafo 2, lettera c), di detta direttiva la discriminazione comprende: c) qualsiasi trattamento meno favorevole riservato ad una donna per ragioni collegate alla gravidanza o al congedo per maternità ai sensi della direttiva 92/85/CEE (del Consiglio, del 19 ottobre 1992, concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento (GU 1992, L 348, pag. 1))”.

L’art. 25 del D. Lgs. 11/04/2006, n. 198 , Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, a norma dell’articolo 6 della legge 28 novembre 2005, n. 246, prevede:

“1. Costituisce discriminazione diretta, ai sensi del presente titolo, qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento, nonché l’ordine di porre in essere un atto o un comportamento, che produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e, comunque, il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un’altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga.

2-bis. Costituisce discriminazione, ai sensi del presente titolo, ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza, nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti”.

Il Tribunale di Ferrara (Lavoro, n. 2/2020) ha, inoltre, chiarito che la discriminazione prescinde dall’intento dell’autore dell’atto o comportamento.

Tale nozione, è già stata accolta dalla giurisprudenza di legittimità con l’importante pronuncia Cass. Sez. L, Sentenza n. 6575 del 05/04/2016, secondo la quale la discriminazione, diversamente dal motivo illecito, opera obiettivamente in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenze alla categoria protetta ed a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro (il caso verteva in materia di licenziamento)”.

Sotto tale profilo l’adito tribunale ha ritenuto condivisibile l’assunto sostenuto dal primo giudice, secondo cui “non rileva, nel caso si tratti di discriminazione per il fattore maternità, l’assenza di un termine di comparazione. Lo stato di maternità è infatti biologicamente connesso ad una condizione di genere, di talché non è necessario perché sussista la discriminazione che vi siano soggetti nella stessa condizione favoriti, essendo sufficiente un trattamento deteriore in assoluto ovvero che determini la compressione o la negazione di un diritto in ragione della condizione di madre (…); “il legislatore non pone limite alcuno circa la natura delle condotte che possono configurare comportamento discriminatorio, ben potendo trattarsi anche di un trattamento economico di natura previdenziale riconosciuto in misura inferiore al dovuto, laddove di esso sia titolare la lavoratrice in maternità”.

L’indennità di maternità

Con specifico riferimento all’interpretazione delle norme sul calcolo dell’indennità di maternità, la Corte di Cassazione (sentenza n. 11414/2018) ha, inoltre, chiarito che “occorre tenere presente gli artt. 30,31 e 37 Cost., privilegiando il criterio del maggior mantenimento possibile del livello retributivo immediatamente precedente al congedo per garantire al genitore un tenore di vita analogo a quello goduto in precedenza. Ciò in quanto il congedo di maternità e la relativa indennità sono posti a protezione della condizione biologica della donna durante e dopo la gravidanza ed alla protezione delle particolari relazioni tra la donna e il bambino durante il periodo successivo alla gravidanza e al parto, onde evitare che queste relazioni siano turbate dal cumulo degli oneri derivanti dal contemporaneo svolgimento di un’attività lavorativa”.

Sicché le donne che fruiscono di un congedo di maternità previsto dalla normativa nazionale si trovano in una specifica situazione che implica che venga loro concessa una tutela speciale, seppure non comparabile rispetto alla posizione di un uomo o di una donna effettivamente presenti sul posto di lavoro.

Per queste ragioni, il ricorso dell’INPS è stato rigettato e confermato il decreto opposto.

La redazione giuridica

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