Nell’aprile 2018 la Corte d’appello di Napoli aveva rigettato la richiesta di riparazione per ingiusta detenzione proposta nell’interesse di un indagato, sottoposto per quasi tre mesi, alla misura degli arresti in relazione alle accuse di turbativa d’asta, rivelazione di segreto di ufficio e corruzione

Le accuse gli erano state mosse dal provveditore alle opere pubbliche per la Campania ed il Molise, prima, e da un funzionario del Ministero delle opere pubbliche, poi, per avere concorso a turbare la gara di appalti pubblici relativi alla manutenzione, ordinaria e straordinaria, delle principali strade di Napoli.
Ma a detta dell’indagato la misura restrittiva era stata disposta pur in assenza di gravi indizi di colpevolezza a suo carico e comunque, sarebbe stata originata solo da un’iniziativa di tipo moralistico degli inquirenti, priva di fondamento giuridico.
Sulla vicenda si sono pronunciati anche i giudici della Cassazione che, a tal proposito, hanno ripercorso la l’evoluzione giurisprudenziale e normativa dell’istituto della riparazione per ingiusta detenzione.
L’indennizzo in questione, – affermano – si risolve “nell’attribuzione di una somma di denaro a riparazione di un pregiudizio lecitamente (perché secondo legge) arrecato, in contrapposizione al risarcimento del danno sempre riferibile ad un fattore causale illecito” (Sez. U, n. 43 del 19/12/1995; Sez. U, n. 1 del 13/01/1995).
Essa tuttavia, è esclusa, per espresso disposto legislativo (art. 314 c.p.p.), qualora l’istante “vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave“, con condotte al riguardo apprezzabili poste in essere sia anteriormente che successivamente all’insorgere dello stato detentivo e, quindi, alla privazione della libertà (cfr. Cass., Sez. U, n. 43 del 19/12/1995).

Ma cosa si intende per “dolo” e “colpa grave”?

Ebbene, è stato chiarito, più volte, che “dolosa deve giudicarsi non solo la condotta volta alla realizzazione di un evento voluto e rappresentato nei suoi termini fattuali (indipendentemente dal fatto di confliggere o meno con una prescrizione di legge), difficile da ipotizzare in fattispecie del genere, ma anche la condotta consapevole e volontaria che, valutata con il parametro dell’id quod plerumque accidit, secondo le regole di esperienza comunemente accettate, sia tale da creare una situazione di allarme sociale e di doveroso intervento dell’autorità giudiziaria a tutela della comunità, ragionevolmente ritenuta in pericolo”, sicché l’essenza del dolo sta, appunto, “nella volontarietà e consapevolezza della condotta con riferimento all’evento voluto, non nella valutazione dei relativi esiti, circa i quali non rileva il giudizio del singolo, ma quello del giudice del procedimento riparatorio“. (Sez. U, n. 43 del 19/12/1995).
Mentre il significato di condotta “colposa” va ricercato nell’art. 43 c.p., secondo cui “è colposo il comportamento cosciente e volontario, al quale, senza volerne e senza rappresentarsene gli effetti (anche se adottando l’ordinaria diligenza essi si sarebbero potuti prevedere), consegue un effetto idoneo a trarre in errore l’organo giudiziario”: in tal caso, la condotta del soggetto, connotata da profili di colpa volta per volta rinvenibili (negligenza, imprudenza, trascuratezza, inosservanza di leggi, regolamenti etc.) “pone in essere una situazione tale da dare una non voluta ma prevedibile (…) ragione di intervento dell’autorità giudiziaria, con l’adozione del provvedimento cautelare, ovvero omessa revoca della privazione della libertà” (Sez. U, n. 43 del 19/12/1995). E in tale ultimo caso la colpa deve essere “grave”, come esige la norma, “connotata, cioè, da macroscopica, evidente negligenza, imprudenza, trascuratezza, ecc., tale da superare ogni canone di comune buon senso” (Sez. U, n. 43 del 19/12/1995).
Ma perché il dolo e colpa grave siano idonei ad escludere l’indennizzo per ingiusta detenzione, è necessario che essi si concretizzino in comportamenti specifici che abbiano “dato causa” o abbiano “concorso a dar(e) causa” all’instaurazione dello stato privativo della libertà; e che il giudice pervenga alla sua decisione in base a dati di fatto certi, cioè elementi “accertati o non negati” con esclusione, dunque, di dati meramente congetturali.
In particolare, “il giudice della riparazione, per decidere se l’imputato vi abbia dato causa per dolo o colpa grave, deve valutare il comportamento dell’interessato alla luce del quadro indiziario su cui si è fondato il titolo cautelare, e sempre che gli elementi indiziari non siano stati dichiarati assolutamente inutilizzabili ovvero siano stati esclusi o neutralizzati nella loro valenza nel giudizio di assoluzione” (Sez. 4, n. 41396 del 15/09/2016).
È necessario dunque, che il giudice della riparazione segua un iter logico-motivazionale autonomo rispetto a quello del processo penale.
Della decisione sulla ingiusta detenzione il giudice del merito ha l’obbligo di dare adeguata ed esaustiva motivazione, strutturata secondo le corrette regole della logica: infatti, il mancato assolvimento di tale obbligo in termini di adeguatezza, congruità e logicità è censurabile in cassazione.

La colpa ostativa al riconoscimento dell’indennizzo

Quanto alla colpa ostativa al riconoscimento dell’indennizzo, va chiarito che essa può essere di due tipi: 1) colpa processuale (ad es., auto-incolpazione, silenzio consapevole sull’esistenza di un alibi; 2) ovvero colpa extraprocessuale, come ad esempio frequentazioni ambigue, connivenza non punibile ovvero comportamenti comunque idonei ad essere percepiti all’esterno come contiguità criminale, purché il giudice della riparazione fornisca adeguata motivazione della loro oggettiva idoneità ad essere interpretati come indizi di colpevolezza, così da essere, quanto meno, in una relazione di concausalità con il provvedimento restrittivo adottato.
Tra questi, vi rientra anche il caso della connivenza passiva, la quale può costituire colpa grave, ostativa al riconoscimento dell’indennità, ove ricorra almeno uno dei seguenti indici: “a) nell’ipotesi in cui l’atteggiamento di connivenza sia indice del venire meno di elementari doveri di solidarietà sociale per impedire il verificarsi di gravi danni alle persone o alle cose; b) nel caso in cui si concreti non già in un mero comportamento passivo dell’agente riguardo alla consumazione di un reato, ma nel tollerare la consumazione o la prosecuzione dell’attività criminosa in ragione della sua posizione di garanzia; c) nell’ipotesi in cui la connivenza passiva risulti avere oggettivamente rafforzato la volontà criminosa dell’agente, sebbene il connivente non intenda perseguire questo effetto; in tal caso è necessaria la prova positiva che il connivente fosse a conoscenza dell’attività criminosa dell’agente.
E, (…nel) giudizio di riparazione (…) la condotta connivente idonea ad inibire la riparazione, per essere qualificata gravemente colposa, deve essere ancorata alla preventiva conoscenza delle attività criminose che si stanno per compiere in presenza del connivente (…); in tal caso la valutazione del giudice di merito sull’esistenza delle caratteristiche che deve assumere la connivenza, per la rilevanza ai fini della riparazione, si sottrae al vaglio di legittimità ove sia stato dato congruo conto, in modo non illogico, delle ragioni poste a fondamento della descritta efficacia della condotta passiva” (così Sez. 4, n. 15745 del 19/02/2015).

La decisione

Profilo di colpa grave ostativa al riconoscimento del diritto all’indennizzo, affine alla connivenza passiva, di cui si è detto, può essere costituito anche dalla condotta di chi, nei reati contestati in concorso, essendo consapevole dell’attività criminale altrui, abbia tenuto comportamenti idonei ad essere percepiti all’esterno come una sua contiguità.
Ebbene, fatte queste premesse generali, i giudici della Cassazione hanno affermato che, nel caso di specie, la Corte d’appello di Napoli avesse fatto buon governo dei principi sopra richiamati, non essendovi i presupposti per il riconoscimento dell’istanza di riparazione richiesta dall’indagato.
Cosi si è concluso il procedimento in via definita.

Dott.ssa Sabrina Caporale

 
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