La Corte di Cassazione ha ritenuto congrua la sanzione rispetto all’infrazione rigettando il ricorso del dipendente che peraltro si fondava su questioni di merito

Licenziato dalla società datrice di lavoro per aver inviato a numerosi dipendenti una mail dal contenuto ritenuto diffamatorio nei confronti di due dirigenti dell’azienda. E’ quanto avvenuto ad un lavoratore che, vedendosi respinta l’impugnazione del provvedimento disciplinare sia in primo grado che in appello, ha fatto ricorso per Cassazione.

L’uomo denunciava, in particolare, la violazione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (Legge n.300/1970) ritenendo che la Corte d’appello avesse negato il carattere discriminatorio del licenziamento dovuto al proprio orientamento sessuale, come deposto da “numerose e pacifiche circostanze di fatto e risultanze processuali, non considerate dai giudici del reclamo”.

La Suprema Corte, con la sentenza n. 18404 del 20 settembre 2016 ha tuttavia rigettato il ricorso ritenendo di non poter accogliere le argomentazioni del dipendente. Per gli Ermellini, infatti, l’uomo si sarebbe limitato a contestare la ricostruzione dei fatti operata dalla Corte d’appello, cosa che non è ammessa nel giudizio di Cassazione, poiché la Corte non può entrare nuovamente nel merito della controversia, ma si limita a verificare la corretta applicazione delle norme di legge.

Secondo la Cassazione poi, il giudice di secondo grado aveva operato correttamente. Il Tribunale d’appello aveva espressamente segnalato che già precedentemente al fatto oggetto di giudizio l’uomo era stato protagonista di un altro episodio obiettivamente grave e la società datrice di lavoro, già conoscendone gli orientamenti sessuali, gli aveva irrogato una sanzione conservativa, mentre in altre occasioni non aveva adottato sanzione alcuna nei suoi riguardi.

I giudici del Palazzaccio hanno inoltre accertato il rispetto da parte del Tribunale di appello del principio di “proporzionalità tra l’infrazione del lavoratore e la sanzione irrogatagli”, sulla base delle circostanze oggettive e soggettive della condotta del lavoratore. In conclusione è stato verificato che l’infrazione contestata fosse “astrattamente sussumibile sotto la specie della giusta causa” e che “la gravità dell’addebito”, fosse tale da ledere irrimediabilmente la fiducia tra le parti circa la futura correttezza del lavoratore nei confronti dell’azienda, per via della dolosità dell’azione e delle modalità usate per condurre la stessa (scritto anonimo e creazione d’un falso mittente).

 

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