Con la sentenza n. 4989 del 14 marzo 2016 la Corte di Cassazione (relatore dott. Marco Rossetti) ha stabilito quali siano i requisiti necessari perché una cartella clinica si definisca incompleta.
Questi i fatti.
Un paziente conveniva dinanzi al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere una  S.p.a. ed un medico che lavorava all’interno di una clinica gestita dalla stessa, nella quale era stato sottoposto ad un intervento di rimozione della cataratta all’occhio destro.
A seguito dell’intervento si verificava la rottura del sacco capsulare, che comportava la perdita totale della vista all’occhio destro e secondo l’attore l’insuccesso dell’intervento andava ascritto a colpa dei sanitari, sia  per avere praticato un tipo di anestesia non indicato, sia per non avere tempestivamente fronteggiato la complicanza con un intervento chirurgico, ed avere invece preferito una terapia antiflogistica.
Il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere rigettava la domanda, ritenendo non sussistente la colpa dei sanitari e la sentenza è stata appellata dal soccombente.
Anche per la Corte territoriale l’esito del processo era negativo per il paziente, in quanto la stessa rigettava il gravame, ritenendo che  le tesi dell’appellante, secondo cui le complicanze intra, e postoperatorie erano state innescate dall’imperita esecuzione dell’anestesia, erano “prive di riscontro”, dal momento che il tipo di anestesia non era indicato in cartella, e non era possibile ricostruire ex post il tipo di anestesia praticata, che  l’esecuzione dell’anestesia, comunque, era stata del tutto irrilevante ai fini della eziologia del danno, e costituiva una mera ipotesi del consulente della parte appellante ed infine, che  a fronte della rottura del sacco capsulare, e dopo la rimozione del cristallino artificiale, il medico preferì, non colpevolmente, attendere e controllare la flogosi corioretinica, piuttosto che intervenire immediatamente con una vitrectomia, in quanto questo tipo di intervento “presentava sempre alcuni rischi”.
Né tanto meno si poteva contestare al medico di non avere attentamente controllato lo stato della flogosi, in quanto il paziente aveva volontariamente lasciato l’ospedale ed, inoltre, non era stato dimostrato, quale diverso e più vantaggioso effetto avrebbe verosimilmente prodotto una immediata vitrectomia.
La sentenza della Corte di Appello veniva impugnata dal paziente che  lamentava che il giudice di secondo grado avrebbe erroneamente ritenuto conforme alle leges artis la condotta di un medico che, invece, era stata difforme dalle linee guida internazionali e dagli studi maggiormente diffusi e condivisi nella scienza medica.
Ebbene gli Ermellini  hanno sostenuto che nella parte in cui il ricorrente lamenta che la Corte d’Appello abbia addossato al paziente le conseguenze della incompletezza della cartella clinica, il motivo è infondato.
La stessa Corte di Cassazione  ha già in più occasioni stabilito che l’incompletezza della cartella clinica può a determinate condizioni, costituire un elemento di prova a svantaggio del medico, e non a suo favore.
La giurisprudenza in esame, però, non ha stabilito alcun rigido automatismo tra incompletezza della cartella clinica e responsabilità del sanitario, in quanto ha affermato un principio ben diverso: e cioè che l’incompletezza della cartella clinica in tanto può far presumere l’esistenza d’un nesso di causa tra la condotta del sanitario ed il danno, quando concorrano con essa due condizioni:
(a) la condotta del sanitario sia stata astrattamente idonea a provocare l’evento;
(b) l’impossibilità di accertare l’esistenza del nesso di causa tra condotta del medico ed evento di danno dipenda unicamente dall’incompletezza della cartella clinica.
Nel caso de quo, secondo gli Ermellini, queste due condizioni non sono soddisfatte, poiché la Corte d’Appello:

  1. ha ritenuto non solo non provata l’esecuzione dell’anestesia per via retrobulbare (in quanto non indicata nella cartella clinica, là dove proprio tale omissione avrebbe dovuto condurre all’affermazione della responsabilità del medico, secondo la giurisprudenza della stessa Corte in tema di nesso causale tra atto medico e danno al paziente (invocano, al riguardo, i precedenti di Cass. 8875/98, 12103/00 e 10414/00)), ma anche inidonea a provocare il danno;
  2. ha escluso non solo l’esistenza d’un valido nesso di causa tra l’operato del medico e il danno, ma ha escluso altresì l’esistenza d’una condotta colposa a carico del sanitario.

Quindi, secondo la Suprema Corte, anche se la Corte territoriale avesse considerato dimostrata l’esecuzione dell’anestesia per via retrobulbare, in virtù dell’incompletezza della cartella clinica, questa prova non avrebbe però dimostrato né che fu l’anestesia a causare l’infiammazione del nervo ottico e che la dimostrata esistenza del nesso di causa avrebbe consentito l’accoglimento della domanda, posto che comunque questa ha rigettato, oltre che per la mancanza del nesso di causa, anche per la mancanza della colpa.
Avv. Maria Teresa De Luca

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