Affermare che la Pubblica Amministrazione “precarizza” i lavoratori, sembrerebbe una contraddizione in termini. Proprio essa che svolge la funzione amministrativa, cioè la concreta realizzazione degli obbiettivi individuati dal potere politico (legittimato dalla collettività e che dovrebbe esprimerne la volontà), caratterizzata da una limitata discrezionalità, nel rispetto della Costituzione ed in armonia con le leggi ordinarie, e con gli atti ad esse equiparati.

La Costituzione è posta a fondamento della regolamentazione della vita della comunità, con i suoi principi ispira tutta l’azione amministrativa: il principio di uguaglianza (art.3), il principio di imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa, il principio del libero accesso dei cittadini al pubblico impiego mediante concorso (art. 51 e art. 97), ed altro ancora.  Ed invece, la P.A., più di un datore di lavoro privato, utilizza il “precariato”, cioè lavoratori assunti con contratti di lavoro a tempo determinato quando va bene, e/o forme di lavoro flessibile come le co.co.pro. (contratti a progetto, consulenze, contratti di prestazione d’opera professionale, incarichi professionali di vario tipo, ecc.).

Quindi, vengono disattesi proprio dalla P.A., i principi fondamentali della nostra Costituzione: l’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro; la retribuzione deve essere proporzionata alla quantità e alla qualità di lavoro prestato per assicurare al lavoratore e alla sua famiglia una vita libera e dignitosa.

Che libertà e dignità può esserci per una persona, precario della Pubblica Amministrazione, quando non può essere libero di programmare il proprio futuro, di crearsi una famiglia avendo un lavoro e, dunque, una retribuzione, a tempo determinato. E così, la dignità di un individuo viene messa da parte, come tutti gli altri valori, e questo, proprio dalla pubblica amministrazione non ce lo si aspetta.

Il potere politico, e di conseguenza la P.A., hanno cercato di porre un argine al fenomeno del precariato, con varie forme di stabilizzazione, contenute nei meandri delle leggi finanziarie degli anni  2006, 2007. In quegli anni, milioni di lavoratori precari pubblici, hanno  agognato una vita più “stabile” ma, tra il dire ed il fare c’è di mezzo: il tetto di spesa da non superare (vincolo di bilancio); l’accesso alla P.A. mediante pubblico concorso (per bandirne uno, la pubblica amministrazione, impiega anni, poiché deve predisporre il bando, nominare le commissioni valutatrici, trovare le sedi per svolgere il concorso, attendere i pensionamenti); la revoca probabile degli stessi concorsi banditi.

Poi, è anche vero che entri negli uffici pubblici, ed i dipendenti si lamentano che sono oberati e che manca il personale; li trovi stressati e demotivati. Di fronte a tale situazione, a milioni di giovani laureati e specializzati, in cerca di una prima occupazione, i governi (senza distinzione politica) in campagna elettorale, hanno sempre promesso meraviglie: posti di lavoro e contratti di lavoro a tempo indeterminato.

Di fatto, però, poco è cambiato e l’uso distorto della normativa sul lavoro flessibile è imputabile storicamente soprattutto allo Stato.

E così, giustamente, il legislatore nel 2007, con la legge n. 244,  ha previsto all’art. 3, comma 78, un principio “tampone” che ostacola l’utilizzo ripetuto di queste forme flessibili di contratti di lavoro che nel tempo hanno creato precariato pubblico, e cioè: “1. Le pubbliche amministrazioni assumono esclusivamente con contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato e non possono avvalersi delle forme contrattuali di lavoro flessibile previste dal codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa se non per esigenze stagionali o per periodi non superiori a tre mesi fatte salve le sostituzioni per maternità relativamente alle autonomie territoriali. Il provvedimento di assunzione deve contenere l’indicazione del nominativo della persona da sostituire. 2. In nessun caso è ammesso il rinnovo del contratto o l’utilizzo del medesimo lavoratore con altra tipologia contrattuale”.

È stato, quindi, previsto un divieto generalizzato di assunzioni a termine (salvo limitatissime deroghe contenute nei commi successivi) ed un divieto categorico di procedere a rinnovo del contratto con il medesimo lavoratore.

Di fatto però detta normativa è stata agirata.

E’ chiaro che i lavoratori precari pubblici, non fanno fronte ad esigenze stagionali o alla sostituzione di altri lavoratori, bensì, ricoprono un posto vacante in pianta organica, atto a garantire lo svolgimento dei normali servizi e  prestazioni, erogate dagli enti.

Dalla fine degli anni 90 ad oggi, i rapporti di lavoro a termine sono stati variamente disciplinati.

Il D. lgs. n. 368 del 2001, in attuazione  della direttiva comunitaria 1999/70, che è fondata sull’articolo 139, paragrafo 2, CE ed, ai sensi del suo articolo 1, è diretta ad «attuare l’accordo quadro (…), che figura nell’allegato, concluso (…) fra le organizzazioni intercategoriali a carattere generale [Confederazione europea dei sindacati (CES), Unione delle confederazioni dell’industria e dei datori di lavoro dell’Europa (UNICE), Centro europeo delle imprese a partecipazione pubblica (CEEP)]». La clausola 1 dell’accordo quadro così recita: «L’obiettivo del presente accordo quadro è: a) migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato garantendo il rispetto del principio di non discriminazione; b) creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato».

Lo Stato Italiano, come noto, è stato inadempiente all’attuazione di tale direttiva  per molto tempo, fino al 24.12.07, quando ha previsto la misura ostativa sub b) con la legge 24 dicembre 2007, n. 247, che ha modificato l’art. 5 del D.Lgs. n. 368/01 ed introdotto il comma 4-bis che dispone: “Ferma restando la disciplina della successione di contratti di cui ai commi precedenti, qualora per effetto di successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti il rapporto di lavoro fra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore abbia complessivamente superato i trentasei mesi comprensivi di proroghe e rinnovi, indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrono tra un contratto e l’altro, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato ai sensi del comma 2”

Vi è da precisare che, prima dell’introduzione del comma 4-bis all’ art. 5 del D. Lgs. n.368/01, avvenuta nel  2007, in ambito del pubblico impiego, così come disciplinato dal Testo Unico  D.lgs. n. 165/2001, si doveva applicare l’art. 36, che prevedeva la sola sanzione risarcitoria: “in ogni caso, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione. Il lavoratore interessato ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative”.

L’art. 36 del D.lgs. n. 165/2001 e la Direttiva 1999/70/CE, quindi sembrano essere  incompatibili.

L’ordinamento interno presenta, quindi, forti elementi di criticità, perché la misura risarcitoria non era strutturata e pensata come ostativa, avente lo scopo specifico di prevenire gli abusi derivati dalla reiterazione dei contratti a termine.

In questa ottica, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 27363/14 del 15/10-23/12/14 ha ritenuto l’applicabilità dell’art. 5, comma 4-bis, del d.lgs. 368/01 al precariato pubblico, con costituibilità di contratto a tempo indeterminato.

Ne deriva che la applicazione dell’art 5, comma 4-bis, alla P.A. passa per l’unica misura sanzionatoria possibile e compatibile con l’istituto e cioè la costituzione del contratto a tempo indeterminato.

Il nostro legislatore nel medesimo giorno (24 dicembre 2007) ha introdotto il comma 4-bis all’ art. 5, del D.lgs. 368/01 con L. 247/2007, e  con la L. n. 244/2007 ha vietato alla P.A. di procedere alla stipula di contratti a termine.

Oggi, però, ci sono ulteriori novità nelle P.A. per le assunzioni flessibili, in particolare per quelle a tempo determinato e per i contratti di somministrazione, a seguito della emanazione del D.L. n. 34/2014, cd. “jobs act”. Le novità non rappresentano degli stravolgimenti, ma hanno un impatto significativo comunque: ampliamento della possibilità di ricorrere a quello strumento, possibilità che deve comunque fare i conti con i limiti dettati alla spesa per le assunzioni flessibili e con scelte legislative di prevenzione di nuovo precariato nel pubblico impiego.

La più significativa, tra le novità introdotte dal “jobs act” per le pubbliche amministrazioni, è costituita dall’ampliamento della possibilità di proroga.

In precedenza, la proroga non poteva essere più di una e la durata massima, comprensiva della proroga e degli eventuali rinnovi, non poteva eccedere il termine di 36 mesi. Sulla base delle novità dettate dal D.L. n. 34/2014, invece, le possibilità di proroga si ampliano fino ad 8, mentre rimane fermo il tetto massimo di durata di 36 mesi, comprensivo sia delle proroghe che dei rinnovi.

Queste innovazioni, in realtà non risolvono il problema, anzi, forse lasciano ancora più margine agli enti pubblici di un possibile utilizzo improprio di tali forme contrattuali.

In ultimo, va rammentato che il problema del precariato pubblico è stato affrontato non solo dalla giurisdizione interna, dalla Corte Costituzionale, ma anche dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, innanzi alla  quale, sono state paventate necessità di bilancio dalla difesa erariale, supportate dai vari ministri di turno.

Le necessità di bilancio non possono costituire una valida ragione per il ricorso ai contratti a termine, anche se vi è da dire che la reiterazione di contratti a termine nel settore pubblico, ha determinato nel tempo non pochi risparmi. Nello specifico ha determinato, il mancato riconoscimento, in favore dei precari pluriennali, della anzianità di servizio in relazione agli scatti di anzianità e, dunque, alla progressione economica: un precario costa di meno di un non precario.

E ciò fa si che venga violato anche l’art. 6 del D.Lgs. n. 368/2001 “principio di non discriminazione” di trattamento tra lavoratori a tempo determinato e lavoratori a tempo indeterminato.

Le violazioni sono tante e ripetute nel tempo. Non è più possibile addurre scuse di alcun genere, ma si deve pensare a stabilizzare i precari, a bandire concorsi esclusivamente a tempo indeterminato per i giovani, a pensionare i lavoratori ormai avanti con l’età, altrimenti, a breve, vivremo un nuovo scontro sociale.

 “Questo articolo è stato scritto grazie alla preziosa collaborazione della Dott.ssa Angela Nicita”. 

Avv. Fabrizio Cristadoro   

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