Non ha alcuna colpa il condannato che non si presenta presso l’ente indicato in sentenza per l’esecuzione del lavoro di pubblica utilità, se non riceve alcuna comunicazione da parte dell’autorità competente

La vicenda

Con sentenza del Tribunale di Oristano l’imputato veniva condannato alla pena di 40 giorni di arresto e di 1.770 Euro di ammenda, sostituita con quella del lavoro di pubblica utilità ai sensi dell’art. 186 C.d.S., comma 9 bis, in quanto ritenuto colpevole del reato di cui all’art. 186 comma 9-bis, c.d.s.

Con successiva ordinanza, il giudice dell’esecuzione disponeva la revoca della pena sostitutiva, poiché il condannato, secondo quanto attestato dal competente Ufficio di esecuzione penale esterna, non si era presentato presso l’ente individuato in sentenza per la prestazione di pubblica utilità giustificando tale inadempienza con un motivo ritenuto pressoché “pretestuoso”, ossia il fatto di aver inutilmente atteso di essere chiamato dall’ente in questione.

Il ricorso per cassazione

Contro tale provvedimento il condannato ha proposto ricorso per cassazione lamentando l’errata applicazione della legge e la violazione dell’indirizzo giurisprudenziale di legittimità secondo cui spetta al pubblico ministero, organo che cura l’esecuzione, dare l’avvio alla relativa procedura, non essendo al riguardo configurabile alcun onere in capo alla parte privata, la quale non è, dunque, tenuta a prendere contatto con l’ente, nè tantomeno a iniziare la prestazione lavorativa.

In seconda battuta, il ricorso sottolineava come la sentenza di condanna non avesse indicato alcun termine per la prestazione dell’attività, limitandosi soltanto a individuare l’ente presso il quale doveva svolgersi il lavoro, senza però imporre al condannato di prendere contatto con esso; e così anche l’ordine di esecuzione, emesso dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Oristano, non aveva specificato nè il termine entro cui doveva essere svolto il lavoro di pubblica utilità, nè le modalità di svolgimento dello stesso.

Ebbene il ricorso è stato accolto perché fondato. (Corte di Cassazione, Prima Sezione, n. 1066/2020)

L/’art. 186 C.d.S., comma 9 bis, stabilisce che “al di fuori dei casi previsti dal comma 2 bis, del presente articolo, la pena detentiva e pecuniaria può essere sostituita, anche con il decreto penale di condanna, se non vi è opposizione da parte dell’imputato, con quella del lavoro di pubblica utilità di cui al D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274, art. 54, secondo le modalità ivi previste e consistente nella prestazione di un’attività non retribuita a favore della collettività, da svolgere, in via prioritaria, nel campo della sicurezza e dell’educazione stradale presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato, o presso i centri specializzati di lotta alle dipendenze”.

Il lavoro di pubblica utilità

Gli Ermellini hanno perciò chiarito che “quando procede per talune delle fattispecie previste dall’art. 186 C.d.S., il giudice della cognizione può sostituire la pena inflitta con il lavoro di pubblica utilità, senza che l’imputato, il quale può sollecitare il giudice in tal senso o anche dichiarare soltanto di non opporsi, sia tenuto ad attivarsi per indicare l’ente o la struttura presso la quale svolgere la relativa prestazione, spettando al giudice, e non all’imputato, stabilire le concrete modalità esecutive della prestazione di pubblica utilità”.

A quest’ultimo riguardo, è stato osservato che le modalità esecutive del lavoro di pubblica utilità sono disciplinate dal D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274, art. 54, recante “Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace”, che al comma 6 stabilisce che “le modalità di svolgimento del lavoro di pubblica utilità sono determinate dal Ministro della giustizia con decreto d’intesa con la Conferenza unificata di cui al D.Lgs. 28 agosto 1997, n. 281, art. 8”.

Il decreto del Ministero dell Giustizia

In attuazione di tale disposizione è stato, quindi, emanato il decreto del Ministro della giustizia del 26 marzo 2001 (intitolato “Norme per la determinazione delle modalità di svolgimento del lavoro di pubblica utilità applicato in base al D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274, art. 54, comma 6”), il quale, dopo aver individuato il tipo di prestazioni dovute e avere richiamato le convenzioni da stipulare con il Ministro della giustizia o, su delega di quest’ultimo, con il presidente del tribunale, all’art. 3, dispone che “con la sentenza di condanna con la quale viene applicata la pena del lavoro di pubblica utilità, il giudice individua il tipo di attività, nonché l’amministrazione, l’ente o l’organizzazione convenzionati presso il quale questa deve essere svolta. A tal fine il giudice si avvale dell’elenco degli enti convenzionati”.

A ben vedere, nessuna delle citate disposizioni disciplinano la sequenza procedimentale che muove dalla sentenza di condanna e giunge all’inizio della prestazione dell’attività lavorativa. “Sequenza che, dal punto di vista logico, – ha aggiunto la Suprema Corte – deve prevedere la formulazione, da parte dell’ente presso cui l’attività debba essere prestata, di uno specifico calendario recante l’indicazione dei giorni e degli orari in cui il lavoro debba essere svolto; e che, ovviamente, deve presupporre una specifica sollecitazione, da parte dell’autorità giudiziaria, rivolta al condannato, affinché prenda contatto con l’ente di riferimento e si uniformi alle indicazioni del cennato calendario. E ovviamente, entrambi i menzionati passaggi procedimentali presuppongono che il condannato riceva specifica comunicazione di essi, onde potersi configurare a suo carico un obbligo che, ove rimasto inadempiuto, consenta di attivare, legittimamente, la procedura per la revoca della pena sostitutiva e per il ripristino della pena sostituita”.

I compiti del Pubblico Ministero

Ne deriva che il primo passaggio procedimentale deve ravvisarsi nell’atto di impulso alla procedura esecutiva, il quale, nel vigente sistema processuale, è di competenza del pubblico ministero. Tale organo è titolare della competenza sia, in termini generali, in materia di esecuzione di tutti i provvedimenti di condanna (art. 655 c.p.p.), sia in materia di esecuzione delle sanzioni sostitutive della semidetenzione e della liberà controllata (art. 661 c.p.p., che onera il pubblico ministero a trasmettere l’estratto della sentenza di condanna al magistrato di sorveglianza territorialmente competente), sia, infine, in materia di esecuzione della pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità (cfr. D.M. 26 marzo 2001, art. 5), spettando al pubblico ministero anche di formulare al giudice, ai sensi del D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 44, le richieste di modifica delle modalità di esecuzione in caso in cui l’amministrazione, l’organizzazione o l’ente presso il quale si debba svolgere l’attività non sia più convenzionato o abbia cessato operatività, nonché di incaricare l’autorità di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza di verificare la regolare prestazione del lavoro.

Tale prospettiva ricostruttiva risulta conforme all’indirizzo giurisprudenziale di legittimità secondo cui, in caso di mancata comunicazione di un termine entro il quale procedervi, il condannato non è tenuto “ad avviare il procedimento per lo svolgimento in fase esecutiva dell’attività individuata”.

La decisione

Ebbene, facendo applicazione di tali principi al caso in esame era evidente che la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Oristano avrebbe dovuto mettere in esecuzione la sentenza di condanna a carico del condannato, comunicando formalmente l’avvio della relativa procedura non solo a quest’ultimo ma anche all’ente designato per lo svolgimento dell’attività di pubblica utilità, invitandolo a predisporre (o nel caso qui in esame di “confermare”) tutti gli adempimenti necessari all’avvio della prestazione (quali, come detto, la formazione del calendario con l’indicazione dei giorni e delle ore e l’individuazione specifica delle mansioni), onde consentire al condannato di poter svolgere effettivamente i lavori di pubblica utilità. Tra questi adempimenti andava certamente ricompreso anche di comunicare, eventualmente attraverso il coinvolgimento dell’Ufficio d’esecuzione penale esterna, il termine entro il quale ricorrente avrebbe dovuto presentarsi presso gli uffici comunali (o, comunque, presso la sede di lavoro individuata) al fine di dare inizio all’esecuzione della pena sostitutiva.

Nessuna di tali comunicazioni era stata effettuata, sicché nessuna “colpa” poteva addebitarsi al ricorrente.

Per queste ragioni, il ricorso è stato accolto e l’ordinanza impugnata annullata con rinvio, per nuovo esame, al Tribunale di Oristano.

Avv. Sabrina Caporale

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