A seguito di anestesia spinale peridurale viene ritenuta correlabile la lesione midollare ma non la sindrome NMO (neuromielite), insorta dopo alcuni mesi dall’intervento (Cassazione Civile, sez. III, sentenza n. 7908 depositata il 19/03/2021)

La paziente si ricoverava presso l’ospedale per essere sottoposta a parto cesareo; in funzione di esso i Medici praticavano un’anestesia spinale peridurale.

Al momento dell’introduzione dell’ago la paziente avvertiva una forte fitta di dolore alla coscia sinistra, ed una sensazione di maggior dolore al momento della reintroduzione dell’ago da parte dell’anestesista.

Effettuato il taglio cesareo e l’estrazione della bambina la donna non recuperava la sensibilità e la mobilità degli arti inferiori, che accusavano violente scosse di tipo spastico, mentre si palesava l’assenza di stimolo funzionale alla minzione.

Durante il ricovero, la donna non recuperava la capacità di deambulare autonomamente. L’esito dei successivi esami indicava l’instaurazione di una patologia di tipo siringomielico che giustificava le limitazioni funzionali dell’arto inferiore evidenziatesi già durante la degenza.

A distanza di 5 mesi comparivano disturbi di carattere neurologico all’emisoma destro e disturbi di carattere visivo che si aggravavano nel tempo estendendosi fino a compromettere in toto la funzione motoria, cui corrispondeva la diagnosi di neuromielite ottica, patologia autoimmune grave e non reversibile, tale da comportare una inabilità assoluta.

In relazione a tali episodi, la donna e il marito citavano a giudizio dinanzi il Tribunale di Venezia l’Azienda Sanitaria invocando il ristoro dei danni patrimoniali e non patrimoniali causati dall’erroneo operato dei Sanitari.

Con sentenza del 10/11-10/12/2014, il Tribunale di Venezia accoglieva parzialmente la domanda e riconosceva la responsabilità contrattuale dell’Azienda sanitaria esclusivamente in relazione al primo dei due quadri patologici valorizzati dagli attori, e cioè alla patologia manifestatasi immediatamente dopo la manovra anestesiologica e che aveva interessato l’arto inferiore sinistro, la vescica e la zona perineale, quale conseguenza della lesione midollare causata dalla esecuzione dell’anestesia pre-parto.

Veniva, dunque, negata la sussistenza del nesso di causalità tra la condotta dei Sanitari e la seconda patologia lamentata (NMO Morbo di Devic) e l’Azienda sanitaria veniva condannata al pagamento in favore della donna della somma di euro 208.567,73, a favore del marito della somma di euro 50.000,00, e a favore dei figli della somma di euro 37.000,00 ciascuno.

Gli attori proponevano gravame dinanzi la Corte d’Appello di Venezia invocando il riconoscimento del nesso di causalità tra la lesione iatrogena arrecata e l’invalidità biologica e lavorativa interamente riportata, con conseguente maggiore liquidazione del danno non patrimoniale sulla base delle Tabelle Milanesi, nonchè del danno lavorativo permanente, quantificato in euro 1.029.050,78, e nuova CTU Medico-Legale.

La Corte d’Appello di Venezia, in parziale riforma della pronuncia di prime cure, accoglieva l’appello limitatamente alla liquidazione del danno in applicazione delle Tabelle milanesi e respingeva le residue censure.

I coniugi impugnano in cassazione.

Con il primo motivo argomentano la violazione delle norme e principi di diritto in tema di responsabilità contrattuale medica e riparto degli oneri probatori in tema di nesso causale. Nello specifico, lamentano che nonostante il CTU non abbia escluso in astratto la possibilità che la NMO possa essere stata provocata dalla lesione midollare, la Corte territoriale negava la sussistenza del nesso causale, dando rilievo ad un ipotetico, ma non dimostrato, “fattore predisponente della NMO rappresentata dalla gravidanza” che, al più, si porrebbe come concausa del danno.

Tale motivo viene ritenuto inammissibile in quanto censura la ricostruzione fattuale così come operata dal giudice di merito sulla scorta delle risultanze di causa, che è inammissibile in cassazione.

Evidenziano gli Ermellini che i ricorrenti correlano tale censura ad una parte della motivazione, dove risulta: “che il consulente non esclude in astratto detta possibilità”, senza però considerare la diffusa motivazione resa sul punto.

Ergo, il motivo è inammissibile poiché non si correla alla motivazione della decisione impugnata.

Il Giudice di merito, ha ben spiegato, sulla scorta della CTU, l’esclusione del nesso causale con la seconda patologia e non ha basato la sua motivazione su quell’affermazione che, del resto, nella stessa CTU, per come richiamata dalla sentenza ha solo il valore di una premessa generale.

E’ stata esclusa dalla CTU “la sussistenza di una correlazione stretta tra la manovra anestesiologica, che ha comportato la lesione midollare con sintomi resisi manifesti a breve distanza di tempo (5 giorni – 3 settimane) e la sindrome NMO (neuromielite), malattia autoimmune insorta dopo alcuni mesi dall’intervento, la qual cosa, unitamente alla gravidanza quale fattore predisponente all’insorgenza di detta malattia, rende meno che probabile (allo stato delle conoscenze scientifiche fino ad oggi acquisite) che detta patologia possa essere stata provocata dalla pregressa lesione midollare, avvenuta al tempo della anestesia epidurale erroneamente praticata direttamente all’interno del midollo spinale”.

Ebbene, anche se il CTU non ha escluso in astratto detta possibilità, la Corte ha escluso che l’evento successivamente manifestatosi sia collegabile, “con rilevante probabilità”, all’intervento medico e alla lesione ricevuta, negando che il nesso causale possa valutarsi in termini di mera possibilità di accadimento, sulla base di quanto indicato dal CTU, utilizzando criteri giuridici condivisi da consolidati orientamenti giurisprudenziali.

Al riguardo viene ribadito che “in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, incombe sul paziente che agisce per il risarcimento del danno l’onere di provare il nesso di causalità tra l’aggravamento della patologia (o l’insorgenza di una nuova malattia) e l’azione o l’omissione dei sanitari, mentre, ove il danneggiato abbia assolto a tale onere, spetta alla struttura dimostrare l’impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile, provando che l’inesatto adempimento è stato determinato da un impedimento imprevedibile ed inevitabile con l’ordinaria diligenza”.

Tale consolidato principio è del tutto allineato all’indirizzo posto dalle S.U. con la decisione 577/2008 che ha statuito “ai fini del riparto dell’onere probatorio l’attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare l’esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l’insorgenza o l’aggravamento della patologia ed allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a carico del debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero, che pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante”.

L’indirizzo è stato correttamente seguito dal Giudice di merito laddove ha ritenuto che la condotta medica fosse astrattamente idonea a provocare quel tipo di aggravamento, ma che tuttavia sia stato dimostrato in concreto non correlato alla condotta imperita.

Conseguentemente, il motivo d’impugnazione formulato viene ritenuto inammissibile, non essendo consentito alla parte censurare come violazione di norma di diritto, e non come vizio di motivazione, un errore in cui si assume che sia incorso il giudice di merito nella ricostruzione di un fatto giuridicamente rilevante, sul quale la sentenza doveva pronunciarsi, non potendo ritenersi neppure soddisfatti i requisiti minimi previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 ai fini del controllo di legittimità della motivazione nella prospettiva dell’omesso esame di fatti decisivi controversi tra le parti.

Anche il secondo motivo viene ritenuto inammissibile in presenza di pronuncia doppia conforme di merito.

Viene censurata: a) la “gravidanza”, erroneamente ritenuta dalla sentenza impugnata come “fattore predisponente della NMO” al fine di escludere il nesso di causa; b) dalla comparsa della patologia autoimmune NMO “a distanza di mesi” dalla lesione del midollo spinale, al fine di escludere il nesso di causa; nonostante tali questioni e valutazioni di fatto fossero state oggetto di accesa discussione tra le parti e i consulenti”. I ricorrenti assumono che i fatti indicati – punti a) e b) – fossero stati ampiamenti contestati e disattesi dal consulente di parte attrice, le cui considerazioni – tuttavia – non venivano confutate dal CTU, nè esaminate dalla Corte territoriale.

Oltre a ciò, gli Ermellini aggiungono che la censura è anche infondata poiché i fatti indicati non rientrano nel paradigma del motivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 in quanto i fatti censurati dai ricorrenti non sono stati omessi dalla Corte di merito, ma espressamente considerati al fine di escludere la sussistenza del nesso causale tra la condotta del sanitario e l’evento lesivo più grave lamentato.

Con il terzo motivo i ricorrenti lamentano la sussistenza di plurimi elementi gravi, precisi e concordanti, per ritenere eziologicamente correlato il morbo di NMO alla lesione midollare.

La Corte territoriale, invero, ha valutato la causalità secondo la regola della preponderanza dell’evidenza, ragionando in termini “non di certezza, nè di mera possibilità, ma di rilevante probabilità, nel senso che comportamento commissivo od omissivo del singolo sanitario della struttura deve aver causato il danno lamentato dal paziente con un grado di efficienza causale così alto da rendere più che plausibile l’esclusione di altri fattori concomitanti o addirittura assorbenti” (p. 12 della sentenza).

Anche questo motivo è inammissibile in quanto si traduce, in buona sostanza, in censura per avere la Corte aderito alle risultanze della CTU, anziché alle considerazioni del CTP dei ricorrenti.

Tale doglianza è inammissibile in sede di legittimità in quanto i ricorrenti imputano alla sentenza impugnata di non avere valutato pretesi fatti, quelli che avrebbero dovuto fondare il ragionamento presuntivo. Tali fatti sono in realtà valutazioni della CTP e, pertanto, si pongono al di fuori della logica dell’art. 360 c.p.c., n. 5.

In conclusione, la Suprema Corte di Cassazione dichiara il ricorso inammissibile in relazione ad ogni motivo.

Conseguentemente, i ricorrenti vengono condannati al pagamento delle spese di lite liquidate in euro 4.000,00, oltre accessori.

Avv. Emanuela Foligno

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