L’imputato, alla guida di un ciclomotore, era accusato di aver investito una signora intenta ad attraversare la strada sulle strisce, causandole lesioni gravissime al capo dalle quali derivava il decesso

La Cassazione, con la sentenza n. 35655/2021, ha confermato la responsabilità di un motociclista accusato di omicidio colposo per aver provocato il decesso di una signora ottantenne. L’imputato, nello specifico, era accusato di aver violato le norme sulla circolazione stradale allorquando, alla guida di un ciclomotore in ambito urbano, benché privo di patente, e su strada in ottime condizioni sia di manto che di visibilità, sorpassando sulla sinistra alcune vetture che si erano fermate per consentire alla vittima di attraversare la strada sulle strisce pedonali ivi esistenti e visibili, da destra a sinistra rispetto al senso di marcia dei veicoli, aveva investito la donna, causandole lesioni gravissime al capo che ne avevano provocato la morte. I Giudici del merito avevano espressamente escluso qualsiasi profilo di corresponsabilità della vittima.

Nel rivolgersi alla Suprema Corte, il ricorrente lamentava di avere, con l’atto di appello, sollevato il dubbio circa l’effettiva dinamica dell’accadimento, in quanto, se i testi di cui si dava atto nella sentenza di primo grado avevano parlato di investimento della donna, il cadavere non presentava lesioni alle gambe né all’addome ed il motorino, esaminato dalla Polizia Municipale, non aveva evidenti segni di impatto: in conseguenza, ad avviso del ricorrente, la signora non sarebbe stata investita ma si sarebbe semplicemente spaventata a causa della improvvisa comparsa del motociclo in fase di sorpasso e, sobbalzando bruscamente, sarebbe caduta rovinosamente al suolo da sola così provocandosi la frattura al capo risultata letale. Sul punto la sentenza di appello non si sarebbe pronunziata e, anzi, la decisione sarebbe stata affetta da travisamento della prova e, comunque, sarebbe stata manifestamente illogica e contraddittoria, per non avere colto che le deposizioni, valorizzate in sentenza, rese dai testimoni oculari, sarebbero state frutto di erronea percezione degli accadimenti da parte degli stessi e, comunque, non sarebbero state né precise né puntuali né nitide né – in definitiva – persuasive.

Gli Ermellini, tuttavia, hanno evidenziato come il ricorrente avesse riproposto lo stesso tema già posto con l’atto di appello e già disatteso dalla Corte territoriale con argomenti congrui e logici, basati sulle dichiarazioni rese dai tre testi oculari, che erano state valutate dalla Corte di appello in maniera conforme al Tribunale; non senza considerare che i giudici di merito avevano – non illogicamente – spiegato perché non fosse necessaria la perizia. La difesa peraltro poneva il tema, di puro fatto, della attendibilità dei tre testimoni. Da lì l’inammissibilità del motivo di doglianza.

La redazione giuridica

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