Una volta esclusa la giusta causa del licenziamento, al fine di individuare la tutela applicabile, il giudice deve svolgere una ulteriore disamina sulla sussistenza o meno delle due condizioni previste dall’art. 18, comma 4 per accedere alla tutela reintegratoria, dovendo, altrimenti, condannare il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria
La vicenda
Il Tribunale di Napoli aveva dichiarato illegittimo il licenziamento intimato da Poste Italiane spa ad un proprio dipendente per aver riportato una sentenza penale di condanna (con applicazione della pena su richiesta ex art. 444 c.p.p.), per fatti non connessi al rapporto di lavoro.
La Corte di appello di Napoli, esclusa la possibilità di tutela reintegratoria e, ritenuto di dovere applicare la tutela indennitaria cd. forte di cui all’art. art. 18, comma 5, aveva aumentato a dodici mensilità l’indennizzo in favore del dipendente.
La decisione di secondo grado veniva cassata dalla Suprema Corte, con la sentenza n. 24259 del 2016, con l’affermazione dei seguenti principi di diritto: a) “Solo una condotta posta in essere mentre il rapporto di lavoro è in corso può integrare stricto iure una responsabilità disciplinare del dipendente, diversamente non configurandosi neppure un obbligo alcuno di diligenza e/o di fedeltà ex art. 2104 e 2105 c.c. e, quindi, una ipotetica violazione sanzionabile ai sensi dell’art. 2106 c.c.”; b) “Condotte costituenti reato possono – anche a prescindere da apposita previsione contrattuale in tal senso – integrare giusta causa di licenziamento sebbene realizzate prima dell’instaurarsi del rapporto di lavoro, purché siano state giudicate con sentenza di condanna irrevocabile intervenuta a rapporto ormai in atto e si rivelino – attraverso una verifica giurisdizionale da effettuarsi sia in astratto sia in concreto – incompatibili con il permanere di quel vincolo fiduciario che lo caratterizza”.
Sicché, la Corte di appello di Napoli, con successiva pronuncia, accoglieva il reclamo proposto dal lavoratore e dichiarava l’illegittimità del licenziamento.
Pertanto annullava il recesso e condannava la società a reintegrare il dipendente nel pregresso posto nonché a risarcire il danno quantificato in dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto percepita, oltre alla regolarizzazione previdenziale ed assistenziale.
Contro tale pronuncia Poste Italiane ha proposto ricorso per cassazione denunciando la violazione delle norme civilistiche laddove la Corte di merito aveva escluso che la condotta oggetto della sentenza penale di condanna fosse idonea ad integrare una ipotesi di giusta causa di recesso. A detta del ricorrente la gravità dei reati (associazione per delinquere, crimine organizzato transnazionale, evasione fiscale) ed il ruolo attivo svolto dal lavoratore nell’organizzazione, oltre a rivestire il carattere di gravità erano certamente idonei a ledere il rapporto fiduciario necessariamente sotteso al rapporto di lavoro, sebbene ad esso estranei.
Ma il motivo è stato dichiarato inammissibile (Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza n. 3076/2020).
A giudizio degli Ermellini, la Corte territoriale aveva correttamente escluso, con accertamento in fatto congruamente motivato la concreta lesione del vincolo di fiducia tra le parti specificando che i fatti contestati, sebbene connotati di gravità e potenzialmente idonei ad incidere sul venire meno dell’elemento fiduciario, tuttavia non erano in alcun modo connessi alla attività lavorativa e alle mansioni di postino espletate dal lavoratore.
La Corte di merito aveva, poi, supportato tale argomentazione evidenziando che durante tutto il processo penale il dipendente era stato lasciato al suo posto, sino al momento del recesso, senza l’adozione di alcun provvedimento cautelativo, con la conseguenza che le risultanze di causa non avevano consentito di effettuare una prognosi di futura inaffidabilità del lavoratore e, quindi, di lesione del vincolo fiduciario.
In altre parole, per i giudici della Suprema Corte la valutazione della corte territoriale era conforme ai principi di diritto, avendo accertato il fatto contestato secondo le direttive impartite in sede di giudizio legittimità, motivando congruamente e adeguatamente le conclusioni adottate.
La Corte di Cassazione ha, invece, accolto il secondo motivo di ricorso relativo alla decisione della corte territoriale di condannare la società a reintegrare il lavoratore.
“A seguito delle modifiche apportate dalla L. n. 92 del 2012 al regime sanzionatorio dettato dalla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, – hanno affermato gli Ermellini – il giudice deve procedere ad una valutazione più articolata circa la legittimità dei licenziamenti disciplinari rispetto al periodo precedente” (Cass. n. 13178 del 2017, Cass. 18823 del 2018; Cass. n. 32500 del 2018).
In primo luogo deve accertare se sussistano o meno la giusta causa ed il giustificato motivo di recesso, secondo le previgenti nozioni fissate dalla legge” (Cass. Sez. Un. 30985 del 2017); nel caso in cui escluda la ricorrenza di una giustificazione della sanzione espulsiva, deve poi svolgere, al fine di individuare la tutela applicabile, una ulteriore disamina sulla sussistenza o meno delle due condizioni previste dall’art. 18, comma 4 per accedere alla tutela reintegratoria (“insussistenza del fatto contestato” ovvero rientrante “tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili”), dovendo, in assenza, applicare il regime dettato dal comma 5″ (Cass. SS. UU. n. 30985 del 2017).
Ebbene, nella fattispecie in esame, la corte territoriale aveva errato nel “collegare la sussistenza o manifesta insussistenza del fatto al difetto degli elementi essenziali della giusta causa o del giustificato motivo”.
“Sotto l’aspetto metodologico, si tratta infatti di due valutazioni diverse: l’una riguardante la esistenza della giusta causa e l’altra la tutela applicabile, che devono essere svolte autonomamente”.
In altre parole, l’indagine che avrebbe dovuto compiere la Corte territoriale, una volta esclusa la giusta causa del licenziamento, era quella di valutare se il fatto addebitato, certamente sussistente nella sua materialità, presentasse o meno quei caratteri di illiceità ovvero se rientrasse la fattispecie nell’ambito operativo delle “altre ipotesi” di cui alla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, comma 5, che giustifica, di contro, una tutela indennitaria forte ma non quella reintegratoria.
Al riguardo, la Corte di Cassazione ha precisato “che, in caso di condotta extralavorativa costituente reato, accertato successivamente con sentenza passata in giudicato, rilevante sul rapporto di lavoro a prescindere da apposite previsioni in tal senso del contratto collettivo e commesso quando il rapporto di lavoro non era ancora in essere, la verifica sul carattere di illiceità non deve essere rapportata alla responsabilità disciplinare, non configurandosi un obbligo di diligenza e/o di fedeltà ex art. 2104 e 2105 c.c., ma deve essere parametrata alla rilevanza giuridica che il comportamento del soggetto può rivestire, con riguardo al “disvalore sociale oggettivo del fatto commesso nel contesto del mondo dell’azienda”, in virtù di una non perfetta sovrapponibilità tra sistema penale e sistema disciplinare (stante la autonomia tra i due giudizi), onde evitare la conseguenza che ogni condotta, comunque accertata come reato, sarebbe illecita e, quindi, idonea a giustificare un licenziamento”.
La decisione
Ed infatti, la rilevanza che può assumere, ai fini disciplinari, con riguardo al carattere di illiceità richiesto dalla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, comma 4, un reato contravvenzionale colposo, commesso prima dell’instaurazione del rapporto di lavoro ma accertato successivamente, è certamente diversa dalla commissione di un delitto la cui violazione del bene giuridico protetto, può incidere in modo più intenso e concreto nell’ambito del rapporto lavorativo-contrattuale tra datore e dipendente.
Di tali principi non aveva fatto corretta applicazione la corte di merito, avendo applicato in modo non esatto il disposto della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, commi 4 e 5 e non avendo interpretato correttamente il concetto di “sussistenza del fatto”.
Per queste ragioni la sentenza è stata cassata con rinvio alla Corte di appello di Napoli, in diversa composizione, per un nuovo esame.
La redazione giuridica
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