L’ultimo Osservatorio civico sul federalismo in sanità, mostra un’Italia ancora divisa nell’accesso alle cure. «Responsabile Civile» ha intervistato Tonino Aceti coordinatore nazionale del Tribunale per i diritti del malato-Cittadinanzattiva

Un contrasto incomprensibile agli occhi dei cittadini tra il sistema di monitoraggio del Ministero della Salute sui LEA e il tasso di rinuncia alle cure registrato dall’Istat: è su questo che si concentra la riflessione di Tonino Aceti, coordinatore nazionale del Tribunale per i diritti del malato-Cittadinanzattiva, intervistato da «Responsabile Civile» per commentare i dati dell’ultimo Osservatorio civico sul federalismo in sanità: «oggi il sistema di monitoraggio non fotografa quello che realmente accade tra cittadino e servizio pubblico, ha dei buchi e rischiamo di dotarci di un sistema di misurazione che non è preciso, però sul quale si definiscono le politiche pubbliche sulla sanità».

Quali sono i dati centrali del nuovo Osservatorio civico sul federalismo in sanità?

Il dato centrale è che un cittadino su dieci rinuncia alle cure e uno su quattro si rivolge alla nostra associazione per segnalare la difficoltà di accesso alle prestazioni sanitarie per ticket e liste di attesa, che sempre più intercettano anche aree molto delicate e importanti come l’oncologia – quindi chemioterapia, radioterapia, interventi chirurgici di carattere oncologico, ma anche esami diagnostici  e persino l’accesso a farmaci innovativi.

Rispetto al resto d’Europa qual è la situazione?

Il nostro paese è uno di quelli che ha la spesa pubblica (per la Sanità n.d.r.) al di sotto della media. Il livello di investimento è pari al 7,1% contro una media del 7,9% dei paesi Europa-14 e contro il 9 % della Francia. Di contro, sebbene non lo si sottolinei abbastanza, la spesa privata delle famiglie è più alta della media Ocse e molto distante da Francia e Germania. E i due dati sono collegati: si spostano i costi dal pubblico alle tasche dei cittadini. Pensi che abbiamo dei bisogni  di salute insoddisfatti che per i redditi più bassi sono pari a quelli dei cittadini greci.

Balza agli occhi anche la solita disparità tra Regioni…

Abbiamo una grande difformità tra le regioni italiane. Il tasso di rinuncia alle cure è più alto al sud e meno alto al nord. Le regioni del Sud, che sono anche quelle soggette a piano di rientro dal debito, sono le stesse che il Ministero della Salute ci dice non essere in grado di garantire i Livelli Essenziali di Assistenza, secondo il sistema di monitoraggio ufficiale. E le regioni soggette a piano di rientro sono anche quelle con un livello di tassazione – in termini di Irpef – più alto delle altre.

La necessità di rientrare dal debito, dunque, prevale sui servizi offerti?

Dal nostro punto di vista ci si è lasciati prendere un po’ troppo la mano: si è guardato molto ai conti e poco alla capacità della Regione di garantire l’assistenza di cui la popolazione ha diritto. Così si è passati da un eccesso all’altro: se prima quelle regioni avevano degli indicatori fuori standard in eccesso, ora siamo alla situazione opposta, abbiamo razionato tanto da arrivare a un assurdo. Per tenere sotto controllo i conti si è andato a incidere in negativo, portando i livelli al di sotto dello standard nazionale dal punto di vista delle prestazioni. Questo è un fenomeno che va denunciato, ed è un rischio perché non si risponde più all’obiettivo che il servizio sanitario si è dato, quello, cioè, di produrre salute e prendere in carico i bisogni delle persone.

Come si è arrivati a questo punto?

Dal rapporto abbiamo concluso che si è giunti a questo punto anche perché è stato dato troppo rilievo alla tenuta dei conti rispetto ai Lea che sono stati residuali nelle politiche regionali e nazionali e lo sono ancora sono troppo. Questo è avvenuto perché, probabilmente, chi ha governato il servizio sanitario pubblico è stato il Mef che ha sovrastato il Ministero della Salute che, invece, ha un po’ abdicato al ruolo di garante dei livelli di assistenza sul territorio nazionale in questi anni (quando invece doveva essere garante della uniformità dei livelli essenziali di assistenza su tutto il territorio nazionale). Le Regioni, a fronte di questo non esercizio, si sono prese delle responsabilità, ma l’aver fatto qualcosa in più ha comportato delle difformità enormi. Noi chiediamo che il Ministero della Salute torni ad essere garante dei Lea e che le regioni rispondano alle proprie funzioni e siano in grado di uniformarsi al controllo e all’indirizzo del Ministero. Poi, soprattutto, dal nostro punto di vista, il sistema che fotografa quello che accade in Italia merita di essere rivisto, perché non è molto preciso.

In che senso?

Facciamo un esempio: secondo il sistema di monitoraggio ci sono alcune regioni benchmark (cioè prese in considerazione per la definizione dei costi standard) che hanno un punteggio molto buono sotto il profilo dei LEA, le Marche in prima battuta. Ecco, proprio le Marche hanno, secondo i dati Istat, un tasso di rinuncia alle cure che è molto al di sopra della media nazionale e vicino a quelli delle regioni soggette a piano di rientro.

Quale può essere la ragione di questa incongruenza?

Oggi il sistema di monitoraggio dei LEA è basato su auto-certificazioni delle cose fatte, emesse da quei soggetti che vengono in questa fase “controllati”. Poi, il sistema non monitora e non mappa i tempi di attesa effettivi che sono il principale indicatore per il cittadino e misura effettiva dell’equità di quel servizio. Inoltre, non è previsto al suo interno un indicatore sul tasso di rinuncia alle cure, oppure uno che dica se l’accesso alle terapie farmacologiche innovative, piuttosto che a quelle oncologiche, è garantito o no nelle regioni. Questo per dire che oggi il sistema di monitoraggio non fotografa quello che realmente accade tra cittadino e servizio pubblico, ha dei buchi e rischiamo di dotarci di un sistema di misurazione che non è preciso, però sul quale definiamo le politiche pubbliche future sulla Sanità. Infine, manca una terzietà. Per esempio il punto di vista dei cittadini sulle prestazioni – anche con i dati che la nostra associazione produce costantemente su tutte le aree di assistenza – potrebbe arricchire il sistema istituzionale di monitoraggio.

Perché questi aspetti non vengono presi in considerazione?

Forse questo sistema fa comodo alle Regioni, perché così dal loro punto di vista si riesce ancora a mantenere. Invece, bisogna alzare di molto l’asticella per capire se realmente siamo in grado o no di garantire i livelli essenziali. Secondo noi, allo stato attuale, il sistema di monitoraggio è inefficace e andrebbe rivisto subito per garantire l’accesso alle cure ai cittadini

Razionalizzare i servizi (se ne parla molto ora in tempi di Decreto Appropriatezza) è realmente necessario?

Il sistema di spending review è stato messo in crisi proprio dal presidente della Corte dei Conti. Di fatto, ha comportato una compressione e un razionamento dei servizi piuttosto che un miglioramento della spesa, perché si è definanziato in modo lineare e non si è inciso sull’effettivo servizio da efficientare.  La criticità di fondo sta nella capacità dello Stato di fare un’indagine preventiva di studio dello scenario. Nulla di tutto ciò è stato messo in campo. Sicuramente i nostri sistemi di monitoraggio potrebbero essere utili per impostare le politiche pubbliche che oggi hanno un approccio top-down, mentre dovremmo costruire un approccio differente, e metterle a punto con la partecipazione di tutti gli attori. Il Decreto appropriatezza è solo l’ultimo degli esempi: noi non siamo stati assolutamente coinvolti. Per razionalizzare i servizi bisogna averne una conoscenza approfondita e metter in campo delle misure che non siano scollate dalla realtà.

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