Respinto il ricorso di un lavoratore contro la revoca della rendita vitalizia per inabilità permanente conseguente a malattia professionale

Con l’ordinanza n. 27341/2020 la Cassazione si è pronunciata sul ricorso di un lavoratore contro la sentenza con cui la Corte di appello, in riforma della decisione di primo grado, aveva rigettato la sua domanda di impugnazione della revoca della rendita vitalizia, già goduta, per inabilità permanente conseguente a malattia professionale.

In particolare, la corte territoriale, sulla base di CTU espletata in primo grado, rilevava che l’INAIL aveva correttamente revocato la prestazione in quanto la percentuale di invalidità dell’assistito – già riconosciuta nella misura dell’11% – si era ridotta al 9% nell’aprile 2004; aveva quindi ritenuto, in diverso avviso rispetto alla sentenza di primo grado, che la revoca fosse intervenuta entro il termine quindicinale ex art. 137 t.u.i.l.m.p. dalla decorrenza della prestazione – riconosciuta giudizialmente in favore dell’assistito con decorrenza dal marzo 1996 – restando invece irrilevante la sussistenza della patologia (in misura inferiore alla soglia di rilevanza di legge) sin dalla domanda amministrativa del 1978.

Nel rivolgersi alla Suprema Corte il ricorrente deduceva, tra gli altri motivi,  che la pronuncia impugnata – nel richiamare gli esiti di consulenza del giudizio di primo grado e ritenere conseguentemente sussistenti le condizioni della revoca della prestazione – avesse ignorato il peggioramento del grado di invalidità dell’assistito (desumibile peraltro anche dalla CTU resa nel giudizio definitivo del 2000) e, dall’altro lato, avesse trascurato che la patologia sofferta – per come accertata nel 2000 (broncopneumopatia cronica ostruttiva)- era divenuta oggetto di autonoma tabellazione nel 2014, sicché la sentenza impugnata non avrebbe potuto, se non violando il giudicato inter partes, inquadrare diversamente il quadro clinico (nella specie, quale liparosi, come fatto in passato, prima della detta autonoma tabellazione).

Gli Ermellini, tuttavia, hanno ritenuto il motivo inammissibile per violazione del principio di autosufficienza, in quanto il ricorrente non aveva trascritto in ricorso le parti della CTU di primo grado che specificamente si contestavano, anche in relazione al preteso contrasto con la CTU del precedente giudizio definito nel 2000. Inoltre, il ricorrente non aveva neppure indicato le eventuali conseguenze della sopravvenuta specifica tabellazione della patologia, non risultando elemento alcuno per contrastare la valutazione – operata dal CTU e recepita dalla sentenza impugnata- della modestia sul piano funzionale dei postumi invalidanti della patologia – correttamente identificata – sofferta dall’assistito.

Per altri versi la Cassazione ha giudicato la doglianza infondata, dovendosi escludere la violazione del giudicato formatosi inter partes nella diversa qualificazione medica – da parte della corte d’appello – della patologia in discorso, posto che il giudicato non riguardava la specifica malattia riscontrata ma solo la sussistenza -all’epoca- dei presupposti del diritto azionato in giudizio.

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