Il termine mobbing, ha origine  dal verbo inglese “to mob” (attaccare) ed è stato usato per la prima volta dall’etologo Konrad Lorenz, per individuare il comportamento di alcuni animali della stessa specie che si coalizzano contro un membro del gruppo attaccandolo, emarginandolo e provocandone, nei casi estremi, la morte.
È stato poi utilizzato da Heinz Leymann, il primo e più autorevole studioso del mobbing, per indicare tutti quei comportamenti che rappresentano un vero e proprio terrorismo psicologico posti in essere nell’ambiente lavorativo da superiori o subalterni,  c.d. mobbing verticale, o dai colleghi di lavoro, c.d. mobbing orizzontale.
Lo scopo di tale condotta ha chiari intenti discriminatori tendenti al fine di emarginare progressivamente un lavoratore per indurlo alle dimissioni o facilitarne il licenziamento.
Per il fenomeno mobbing sono state date elaborate più definizioni, ma una delle più conosciute è la seguente: “forma di molestia o violenza psicologica esercitata quasi sempre con intenzionalità lesiva, ripetuta in modo iterativo, con modalità polimorfe”.
L’azione persecutoria viene intrapresa per un periodo determinato, arbitrariamente stabilito in almeno sei mesi sulla scorta dei primi rilievi svedesi, ma con ampia variabilità dipendente dalle modalità di attuazione e dai tratti della personalità dei soggetti, con la finalità o la conseguenza dell’estromissione del soggetto da quel posto di lavoro.
Si ricorre al mobbing spesso a mezzo di azioni lesive occultate dietro una facciata addirittura cordiale, che metterà la vittima in condizione di compiere errori. Avremo quindi condotte che tenderanno a dequalificare la vittima, isolarla, sottrarle dei benefit, ecc.. La conseguenza di tale condotta sarà l’inevitabile danno alle condizioni psicofisiche della vittima arrivando così alle sue spontanee dimissioni o ad un “giusto e giustificato” licenziamento.
Tra gli attori del mobbing si possono distinguere varie figure, in base alle condotte poste in essere.
Avremo quindi, i mobbers principali, rappresentati dall’autore o dagli autori della condotta vessatoria, i mobbers secondari, ossia coloro che affiancano gli autori principali seguendone la strategia e i side mobbers, ovvero i colleghi, superiori o anche sottoposti, che pur non avendo un ruolo attivo nella condotta mobizzante, sono a conoscenza della situazione e spalleggiano il capo.
Infine, ci sono i bystanders, che sono coloro che si limitano ad assistere passivamente (i c.d. tolleranti).
Ebbene la Suprema Corte con la sentenza n. 2142 depositata il  27 gennaio 2017, che identifica, in modo dettagliato, gli elementi costitutivi del mobbing.
La sentenza in commento, si è occupata di un’azione di risarcimento danni per mobbing, avanzata da un dipendente Comunale, un Vigile urbano al quale erano state assegnati compiti esecutivi, estremamente semplici, non consoni alla qualifica rivestita, che di fatto avevano comportato lo svuotamento delle mansioni dello stesso.
Il Vigile era stato anche lasciato inattivo e isolato per molto tempo, senza scrivania e ufficio, costretto stare in piedi in un corridoio fino a quando non venne assegnato allo svolgimento “di pratiche cimiteriali” ed accompagnato all’entrata del cimitero municipale ove gli veniva detto che “quella era la sua sede di lavoro”.
Gli Ermellini hanno chiarito che per potersi configurare il mobbing  devono ricorrere: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio –illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi “(Cass. 17698 del 2014).  
Nel caso de quo, le testimonianze rese nel corso del giudizio hanno permesso di ricostruire una persecuzione mirata, motivata da una causa precisa e cagione di un danno biologico comprovato. Rileva anche, nella circostanza, il comportamento degli colleghi della vittima “che allontanano il soggetto scomodo temendo a loro volta di essere oggetto di condotte ritorsive” e si rifiutano di testimoniare.
E’ stata confermata, pertanto, dagli Ermellini, la sentenza della Corte territoriale che ha ritenuto che “la sistematica esposizione del … ad atti vessatori con azione volta alla negazione stessa dell’individuo e della sua autostima, aveva provocato l’insorgere di una sindrome reattiva di grado medio, fonte di danno biologico, concorrente con il danno all’immagine e alla professionalità, pure derivanti dal demansionamento e dalla complessiva azione dell’amministrazione, che nell’insieme aveva assunto i caratteri del mobbing per la analitica motivazione in ordine alle risultanze della c.t.u. medico-legale e alla percentuale del danno biologico, nonché per il nesso tra comportamento mobbizzante e ulteriori danni non patrimoniali connessi alla lesione dell’immagine e della professionalità”.
Quindi, se il lavoratore riesce a provare, come nel caso che ci occupa, il rapporto causale fra il danno subito e le persecuzioni patite sul lavoro, ha diritto a essere risarcito.
La Cassazione, quindi, ha respinto il ricorso del Comune e confermato la condanna.

 Avv. Maria Teresa De Luca

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