Mobbing: risarcita una dipendente del Ministero della Pubblica Istruzione

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Ai fini della configurabilità del mobbing, l’elemento qualificante, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria, va ricercato non nell’illegittimità dei singoli atti bensì nell’intento persecutorio che li unifica

La vicenda

Nel 2017 la Corte d’appello di Salerno, in riforma della sentenza di primo grado, accoglieva la domanda di risarcimento del danno proposta da una dipendente del Ministero della Pubblica Istruzione, in qualità di docente presso un istituto tecnico commerciale, condannando i convenuti al pagamento della somma complessiva di 27.918 euro in suo favore.
A fondamento della propria decisione la corte territoriale, dopo aver richiamato la definizione giurisprudenziale di mobbing e precisato che alcuni comportamenti possono dare luogo a responsabilità datoriale anche in assenza dell’intento persecutorio unificante che qualifica il mobbing, se vessatori e mortificanti, in relazione al danno alla integrità psicofisica patito dal lavoratore, aveva ritenuto ravvisabile nella fattispecie di causa, una condotta mobbizzante in danno della docente o quanto meno, condotte vessatorie e mortificanti generatrici di responsabilità.
In particolare, aveva ritenuto rilevante ai fini della decisione, l’irrogazione da parte della dirigente scolastica, di ben tre provvedimenti disciplinari ingiustificatamente offensivi e degradanti e già dichiarati illegittimi dal giudice del primo grado.

Le dichiarazioni dei testi avevano, inoltre, confermato la palese pretestuosità delle sanzioni disciplinari.

Altrettanto ingiustificabili apparivano le continue richieste di visite fiscali per la verifica dell’assenza della ricorrente, dovuta ad una patologia tumorale, condizione che l’Istituto non poteva non conoscere, in quanto l’insegnante aveva reso edotta la scuola della necessità di terapie post operatorie.
La denigrazione della professionalità della docente era assolutamente ingiustificata, alla luce delle positive qualità confermate dai testi; la condotta era chiaramente espressiva, non di un contrasto momentaneo ma di un risentimento maturato nel tempo ed anche reiteratamente manifestatosi, come lamentato dell’insegnante e riscontrato dai documenti e dalle dichiarazioni testimoniali.
Tal «inaccettabili comportamenti oltre ad incidere, sia complessivamente che singolarmente, sulla dignità della lavoratrice avevano provocato danni alla salute, come riscontrato degli accertamenti peritali disposti nel grado di appello».
Di tale danno era responsabile l’amministrazione scolastica, a causa dell’omessa vigilanza sulla condotta della preside, materiale autrice della condotta mobbizzante e dell’omesso adeguato intervento nonostante le reiterate segnalazioni pervenute dalla ricorrente.

Il ricorso per Cassazione

Con ricorso per Cassazione l’amministrazione soccombente in giudizio, denunciava la violazione e falsa applicazione della legge, per avere la sentenza impugnata ravvisato una condotta di mobbing pure in assenza di un intento persecutorio, laddove l’accertamento di tale elemento soggettivo è elemento necessario alla configurazione della fattispecie astratta del mobbing, come elaborata dalla giurisprudenza di legittimità.
Ma il ricorso è stato dichiarato del tutto infondato.
In primo luogo, la corte d’appello si era attenuta al consolidato principio enunciato dalla giurisprudenza, secondo cui ai fini della configurabilità del mobbing l’elemento qualificante, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria , va ricercato non nell’illegittimità dei singoli atti bensì nell’intento persecutorio che li unifica (Cassazione civile sez. lav., 10/11/2017, n.26684).
Aveva poi, aggiunto che pure nell’ipotesi di insussistenza di un intento persecutorio — e quindi di inconfigurabilità di una condotta di mobbing— il giudice del merito è comunque tenuto ad accertare se alcuni dei comportamenti denunciati possano essere considerati in sé vessatori e mortificanti per il lavoratore e, come tali, produttivi di responsabilità per il danno da questi patito alla propria integrità psico-fisica .
Ebbene, nel merito, tale accertamento era avvenuto e l’esito era stato quello di aver positivamente riscontrato l’elemento soggettivo, affermando che nei confronti della lavoratrice era stata attuata una condotta mobbizzante, alla luce della palese pretestuosità delle tre sanzioni disciplinari e della complessiva condotta della dirigente scolastica, «chiaramente non espressiva di un contrasto momentaneo ed episodico, ma frutto di un risentimento maturato nel tempo ed anche presumibilmente costantemente e reiteratamente manifestatosi».
Insomma del tutto legittima è stata la conclusione della corte d’appello che, pertanto è stata definitivamente confermata.

La redazione giuridica

 
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