Due ore di lucida agonia tra l’incidente e il decesso: gli eredi della vittima hanno diritto al risarcimento del danno morale catastrofale. “Non è infatti sostenibile che la sofferenza umana possa essere un elemento giuridicamente irrilevante

La vicenda

Con atto di citazione gli attori convenivano in giudizio, davanti al Tribunale di Fermo, la società datrice di lavoro, la compagnia assicurativa e un dipendente della stessa società, per sentirli condannare in solido, al risarcimento dei danni patiti dal proprio familiare, morto a causa delle lesioni subite “dallo schiacciamento provocato dal veicolo motopala di proprietà della società” e condotto dal convenuto.

In primo grado, il Tribunale accoglieva la domanda, condannando tutti i convenuti al pagamento della somma, rispettivamente di 190.000,00 euro e 180.000,00 euro in favore dei due ricorrenti, a titolo di danno non patrimoniale conseguente alla perdita del rapporto parentale, oltre al danno patrimoniale da compensare con la rendita Inail.

La sentenza confermata in appello, è stata impugnata con ricorso per Cassazione dai congiunti della vittima, i quali deducevano la violazione degli artt. 2056 e 2059 c.c., per aver la corte d’appello escluso il loro diritto (in qualità di eredi del defunto) al risarcimento iure hereditatis del danno morale catastrofale subito da quest’ultimo, la cui morte era avvenuta dopo diverse ore dal sinistro stradale; escludendo, in tal modo, la configurabilità del danno in capo alla vittima e la conseguente trasmissione agli eredi, con motivazione apparente, errata o comunque incompleta.

In particolare, il giudice dell’appello aveva escluso la risarcibilità di tale voce di danno ritendo che il lasso temporale intercorso tra l’evento lesivo e la morte, pari a circa due ore e mezza, fosse troppo breve per la configurabilità del danno.

Il punto centrale della liquidazione avrebbe dovuto essere, al contrario, – ad avviso dei ricorrenti – la condizione di lucidità della vittima durante lo spazio di tempo tra l’incidente e il decesso.

Ed invero, era stato accertato che il giovane fosse deceduto dopo oltre due ore di lucida agonia, a causa di una emorragia determinata dal fatto di essere stato trafitto all’inguine con un gancio di un autotreno, mentre cercava di aiutare un’altra persona rimasta bloccata con il proprio mezzo. Durante questo intervallo, la vittima era perfettamente lucida, tanto da aver chiesto al conducente del veicolo di spostarsi in avanti con la pala. Il ragazzo avrebbe perciò, verosimilmente compreso in tutta la sua drammaticità, la condizione che stava vivendo, con conseguente configurabilità di un danno morale terminale o da lucida agonia.

La Sesta Sezione Civile della Cassazione (ordinanza n.23153/2019) ha accolto il ricorso affermando che “nell’intervallo temporale tra la lesione mortale e la morte, matura sempre un danno biologico stricto sensu (ovvero danno al bene salute), come già rilevato da Cass. n. 22541/2017; a questo può aggiungersi un danno morale peculiare, improntato alla fattispecie, ovvero il danno da percezione, concretizzabile sia nella sofferenza fisica derivante dalle lesioni, sia nella sofferenza psicologica (definita agonia) derivante dall’avvertita imminenza dell’exitus”.

Se infatti, nel tempo che intercorre tra la lesione e il decesso, la persona non è in grado di percepire la sua situazione, e in particolare l’imminenza della morte, il danno non patrimoniale è riconducibile soltanto alla species biologica; se, invece, la persona si trova in una condizione di lucidità agonica, si aggiunge, sostanzialmente quale ulteriore accessorio della devastazione biologica stricto sensu, un peculiare danno morale terminale.

La decisione

Con la sentenza in commento, la Suprema Corte ha inteso dare continuità all’orientamento già espresso dalla Terza Sezione (n. 16727/2018), precisando che “nella fattispecie in cui le risultanze processuali dimostrino che la persona sia rimasta lucida nello spatium temporis tra la lesione e la morte, dalla lesione al diritto alla dignità della persona umana (art. 2 Cot.), deriva la risarcibilità del danno non patrimoniale, che sussiste sia sotto il profilo stricto sensu biologico, sia sotto il profilo psicologico “morale”. Non è infatti sostenibile che la sofferenza umana possa essere un elemento giuridicamente irrilevante, vale a dire che l’assenza di sofferenza umana sia elemento privo di utilità”.

Nel caso di specie lo spatium temporis era risultato tutt’altro che “brevissimo” per escluderne il rilievo ai fini risarcitori.

Il ricorso è stato perciò accolto. Il giudice del rinvio, sulla base delle risultanze istruttorie, verificherà se la vittima era lucida, e quindi percepiva la sua tremenda situazione, tale da non poter non indurre quantomeno il forte timore della morte imminente e lo strazio per l’abbandono dei congiunti. Elementi questi, che a giudizio degli Ermellini, dovranno essere specificamente tenuti in considerazione, nell’eventuale determinazione del quantum risarcitorio.

Avv. Sabrina Caporale

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