Una donna è morta a seguito di un intervento di colecistectomia per un arresto cardiaco, causato, secondo la tesi dei parenti, dall’imperizia del medico anestetista.
Per l’accusa, il medico avrebbe omesso un adeguato monitoraggio post-operatorio e post-anestesiologico, trasferendo prematuramente la paziente nel reparto di degenza.
Dopo tre gradi di giudizio, la sezione IV della Cassazione penale (dep. 09/11/2023, n.45141) ha assolto il medico perché non vi è certezza oltre ogni ragionevole dubbio delle cause dell’arresto cardiaco e del decesso del paziente e nonostante la cartella clinica risultasse incompleta.
Le vicende giudiziarie
Già il Tribunale di Salerno e la Corte di Appello di Salerno avevano assolto il medico imputato del reato di omicidio colposo.
Il Tribunale e la Corte di Appello hanno ritenuto che, all’esito del giudizio, non fossero emersi elementi idonei a fornire certezza sulle cause dell’arresto cardiaco in quanto i dati clinici non consentivano di raggiungere quel grado di probabilità logica se lo stesso fu determinato da un blocco neuromuscolare derivato dal protrarsi dell’azione farmacologica dell’anestetico o si trattò, invece, di un arresto cardiaco primario.
L’autopsia non ha fornito alcuna certezza a riguardo sicché gli unici dati disponibili erano rappresentati: dalla constatazione che poco dopo l’arresto cardiaco, i marker cardiaci presentavano valori tali da escludere una ischemia; nella prospettiva della difesa, dalla constatazione che l’elettrocardiogramma eseguito nell’immediatezza evidenziò un “sottolivellamento del tratto ST” significativo di una aritmia maligna o, comunque, di cause di alterazione della funzionalità cardiaca “non ricollegabili ad un ritorno della curarizzazione”.
La sentenza di secondo grado osserva che le ricostruzioni fornite dai Consulenti dell’accusa e da quelli della difesa possono essere tacciate entrambe “di ipoteticità e astrattezza, ma ciò non è dovuto alla scarsa qualità dei contributi scientifici offerti”, bensì all’oggettiva impossibilità “di ricavare altri dati clinici oltre a quelli già disponibili”, resa evidente dal fatto che neppure l’esame autoptico è stato in grado “di accertare nulla di conclusivo”.
Il ricorso in Cassazione
La parte civile costituita ha presentato in Cassazione. Viene lamentato che la cartella clinica non contiene indicazioni sulle condizioni della paziente nell’arco temporale ricompreso tra la fine dell’intervento (ore 11:20) e il rientro in reparto (ore 12:00), sicché non è possibile affermare che, quando la donna rientrò in reparto, avesse smaltito il farmaco curarizzante che le era stato somministrato. Per tale ragione non è possibile affermare che il Medico abbia eseguito un attento monitoraggio delle condizioni della paziente e abbia disposto il trasferimento nel reparto di degenza solo dopo essersi assicurato dell’effettiva regressione dell’effetto del curaro.
La censura viene considerata inammissibile.
I Giudici di Appello hanno congruamente motivato che il CTU non avrebbe potuto acquisire dati diversi rispetto a quelli messi a disposizione dei Consulenti delle parti e questi dati sono stati compiutamente esaminati con indicazioni conclusive contrastanti, fornendo più spiegazioni alternative dell’arresto cardiaco che colpì la paziente. Secondo la Corte territoriale, tali spiegazioni erano tutte plausibili e i pochi dati a disposizione non hanno consentito a nessuno dei Consulenti di fornire indicazioni idonee a smentire le differenti tesi sostenute dagli altri, sicché l’iter causale che condusse all’evento non è stato ricostruito con ragionevole sicurezza.
Gli Ermellini sottolineano che l’accertamento peritale non sempre è obbligatorio. Le regole del contraddittorio impongono, infatti, che sia applicato un metodo scientifico e sia consentito alle parti di interloquire sulla validità dello stesso, ma non possono essere utilizzate per accreditare l’esistenza di un sistema di prova legale, che limiti la libera formazione del convincimento del Giudice ogniqualvolta egli abbia necessità di avvalersi dei saperi di scienze diverse da quella giuridica.
Pur in assenza di una perizia d’ufficio, in virtù del principio del libero convincimento, il Giudice di merito, “può scegliere tra le diverse tesi prospettate dai Consulenti delle parti, quella che ritiene condivisibile, purché dia conto con motivazione accurata ed approfondita, delle ragioni della scelta, nonché del contenuto della tesi disattesa e delle deduzioni contrarie delle parti.
Le Sezioni Unite hanno precisato, inoltre, che “la rinnovazione (ndr della CTU) del giudizio in appello è istituto cli carattere eccezionale al quale può farsi ricorso esclusivamente quando il giudice ritenga, nella sua discrezionalità, di non poter decidere allo stato degli atti (Sez. U, n. 2780 del 24/01/1996) e che la perizia non può essere fatta rientrare nel concetto di prova decisiva ,”trattandosi di un mezzo di prova “neutro”, sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso alla discrezionalità del Giudice.
In sostanza, il ricorso censura la motivazione della sentenza impugnata perché non ha ritenuto provata la condotta omissiva del Medico. Censura, in particolare, l’affermazione secondo la quale la “mancata verbalizzazione in cartella clinica delle precise manovre eseguite” non sarebbe sufficiente a provare che l’osservazione medica post-operatoria della paziente fu omessa; affermazione fondata sull’assunto che in cartella clinica “vengano annotati fatti significativi diversi da quelli di mera routine, quali sono le manovre per verificare il risveglio e il recupero del paziente”.
Nesso causale tra la condotta omissiva e l’arresto cardiaco
Tuttavia, la tesi difensiva dei ricorrenti trascura che, anche se l’omissione di attività doverose fosse certa, per poter ritenere sussistente il nesso causale tra la condotta omissiva e l’evento (e compiere in termini rigorosi il ragionamento controfattuale) sarebbe comunque necessario aver preliminarmente accertato ciò che è accaduto; ma, come la sentenza impugnata chiarisce, nel caso di specie tale accertamento non è stato possibile (né avrebbe potuto esserlo disponendo un accertamento peritale), perché i pochi dati a disposizione non fornivano alcuna certezza in ordine alla genesi dell’arresto cardiaco verificatosi alle 12:15 del 16 settembre 2013.
La giurisprudenza di legittimità, infatti, ha sottolineato più volte che solo la conoscenza, sotto ogni profilo fattuale e scientifico, del momento iniziale e della successiva evoluzione della malattia consente l’analisi della condotta omissiva colposa addebitata al sanitario e consente di verificare se, ipotizzandosi come realizzata la condotta dovuta, l’evento lesivo sarebbe stato evitato al di là di ogni ragionevole dubbio.
Nel caso di specie, la Corte di Appello, richiamando anche le argomentazioni sviluppate dal Giudice di primo grado, ha sottolineato che non vi è alcuna certezza in ordine alla genesi della malattia e che i dati obiettivi acquisiti nel corso del giudizio (in specie: l’esito dell’esame autoptico e l’esito degli accertamenti strumentali eseguiti subito dopo l’arresto cardiaco e nei giorni successivi), non hanno consentito di stabilire cosa sia naturalisticamente accaduto, ciò che preclude qualsiasi ragionamento controfattuale.
Conclusivamente, il ricorso presentato in Cassazione non si confronta con la motivazione del provvedimento impugnato che ha fondato la pronuncia assolutoria sulla constatata insuperabile incertezza riguardo alle cause dell’arresto cardiaco che condusse a morte la paziente.
Avv. Emanuela Foligno