Per la Cassazione, in materia di prestazioni quali la pensione di reversibilità, il deposito in appello di documenti non prodotti in prime cure non è oggetto di preclusione assoluta
Nel rito del lavoro, in deroga al generale divieto di nuove prove in appello, è possibile l’ammissione di nuovi documenti, su richiesta di parte o anche d’ufficio, solo nel caso in cui essi abbiano una speciale efficacia dimostrativa e siano ritenuti dal giudice indispensabili ai fini della decisione della causa, facendosi riferimento per “indispensabilità” delle nuove prove ad una loro “influenza causale più incisiva” rispetto alle prove in genere ammissibili in quanto “rilevanti”, ovvero a prove che siano idonee a fornire un contributo decisivo all’accertamento della verità materiale per essere dotate di un grado di decisività e certezza tale che da sole considerate, e quindi a prescindere dal loro collegamento con altri elementi e da altre indagini, conducano ad un esito “necessario” della controversia. Lo ha chiarito la Cassazione nell’ordinanza n. 20258/2020 pronunciandosi sul ricorso presentato dall’Inps contro la decisione della Corte di appello che, in riforma della decisione di primo grado, aveva riconosciuto a un uomo il diritto alla pensione di reversibilità del padre, quale figlio superstite invalido e vivente a carico.
Nel rivolgersi alla Suprema Corte l’Istituto lamentava che, nonostante il richiedente non avesse specificamente allegato, nel ricorso introduttivo del giudizio, lo stato di “vivenza a carico” del padre defunto e per tale ragione il giudice di primo avesse respinto la sua domanda, la Corte d’Appello aveva ritenuto legittima la tardiva allegazione di tale presupposto costitutivo del diritto alla pensione di reversibilità ed acquisito, in appello, la relativa documentazione, anche se la produzione era avvenuta tardivamente, dopo la costituzione in giudizio.
Gli Ermellini hanno ritenuto la doglianza inammissibile.
Dal Palazzaccio hanno infatti precisato come, sulla base della giurisprudenza di legittimità, “nella materia della previdenza e assistenza, caratterizzata dall’esigenza di contemperare il principio dispositivo con quello della ricerca della verità materiale, gli artt. 421 e 437 cod.proc.civ. attribuiscono al giudice il potere – dovere di provvedere di ufficio agli atti istruttori idonei a superare l’incertezza sui fatti costitutivi dei diritti in contestazione, sempre che tali fatti siano stati puntualmente allegati nell’atto introduttivo e quindi oggetto del dibattito processuale e richiedono che, dall’esposizione dei fatti compiuta dalle parti o dall’assunzione degli altri mezzi di prova, siano dedotti, sia pure implicitamente, quei fatti e quei mezzi di prova idonei a sorreggere le ragioni della parte e a decidere la controversia, e cioè che sussistano significative piste probatorie emergenti dagli atti di causa, intese come complessivo materiale probatorio, anche documentale, correttamente acquisito agli atti del giudizio di primo grado”.
Il deposito in appello di documenti non prodotti in prime cure, quindi, non è oggetto di preclusione assoluta, in quanto il giudice di appello, nell’esercizio dei poteri officiosi di cui all’art. 437 cod.proc.civ., può sempre ammettere detti documenti ove li ritenga indispensabili al fine della decisione e sempre che sussista una pista probatoria.
Nel caso in esame la Corte del merito aveva rimarcato, e motivato, in continuità con i richiamati precedenti di legittimità, l’indispensabilità della documentazione diretta all’accertamento della verità materiale in ordine all’acquisizione dei documenti prodotti in appello comprovanti, agli effetti della vivenza a carico, la condizione reddituale del superstite inabile, tenuto conto dei soli redditi personali soggetti ad IRPEF con esclusione dei redditi del coniuge (nella specie, la sentenza di separazione personale), con positivo e decisivo accertamento tale da condurre all’esito del completo rovesciamento della decisione cui era pervenuto il giudice di primo grado quanto alla sussistenza del requisito della vivenza a carico.
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